Fabrizio Onida (Sole 24Ore, 16 febbraio 2021)
Domanda: la pandemia, fenomeno globale per definizione, contribuirà a quella “de-globalizzazione” delle economie che alcuni temono (e altri auspicano) dopo la fase di “iperglobalizzazione” che, secondo diversi autorevoli studiosi come Richard Baldwin e Dani Rodrik, si è verificata nel ventennio che va dalla metà degli anni ’80 alla Grande crisi del 2007-08?
Risposta: i dati mostrano chiaramente che da diversi anni la crescita del commercio internazionale ha perso colpi rispetto alla crescita del Pil dei principali Paesi. Ed è purtroppo evidente che tra i settori maggiormente colpiti dalla pandemia vi sono quelli più legati alla mobilità geografica delle persone e delle merci (viaggi di lavoro e di studio, turismo), mettendo a rischio la sopravvivenza di moltissime piccole e medie imprese.
Prima ancora della pandemia, si erano manifestati nell’opinione pubblica mondiale sentimenti nazionalisti-isolazionisti-sovranisti, variamente motivati dalla paura della Cina, da condizioni precarie sul mercato del lavoro, dall’incapacità dei governi di frenare crescenti diseguaglianze all’interno dei Paesi (mentre fortunatamente a livello globale si riducono gli indici medi di povertà estrema e un crescente numero di economie arretrate conquista migliori standard di sviluppo). Le indagini Gallup segnalano che il clima d’opinione popolare anti-global è fortemente correlato ai cicli congiunturali di recessione-espansione delle economie su cui incidono le politiche dei governi.
Tuttavia, più che di “de-globalizzazione” e ritorno ai peggiori nazionalismi della prima metà del secolo passato, oggi ha senso parlare di semplice rallentamento nelle tendenze di integrazione economico-finanziaria tra Paesi (“slowbalisation” il copyright è dell’«Economist»). Vediamo perché.
In primo luogo, come mostra la corsa ai vaccini di varia provenienza, la stessa pandemia diventa fonte di maggiore interdipendenza fra Paesi, quanto a circolazione internazionale delle conoscenze e dei brevetti. Anche se il Fondo monetario internazionale ha segnalato a livello globale nei primi nove mesi del 2020 l’introduzione di 120 nuovi provvedimenti di restrizione all’export come misure di salvaguardia per garantire la disponibilità domestica di farmaci e presìdi medico-sanitari. Ma a difesa degli Stati non autosufficienti sul terreno della sicurezza sanitaria va ricordata la “licenza obbligatoria”, uno strumento per favorire l’accesso di Paesi meno sviluppati a farmaci essenziali per la vita che da tempo appartiene all’arsenale normativo della World trade organization. Non priva di controversie nella sua applicazione pratica con le case farmaceutiche produttrici (come nel caso di India e Brasile nella lotta contro l’Hiv), ma pur sempre disponibile.
In secondo luogo, se tra gli effetti della recessione da Covid è stata notata qualche tendenza all’accorciamento, o almeno alla “regionalizzazione”, delle catene globali di fornitura per ridurre costi e rischi della distanza geografica (e conseguenti minori moltiplicatori del commercio internazionale), non va dimenticato che nessuna impresa evoluta e dinamica (nel linguaggio di Istat 2020) tende a dissipare disinvoltamente quel fondamentale “capitale relazionale” fatto di esperienza-conoscenza istituzionale-fiducia che deriva dalla paziente costruzione delle proprie reti internazionali di fornitura di componenti e prodotti semi-finiti. Secondo Pol Antràs (Nber Wp 28115, novembre 2020) l’accorciamento delle catene internazionali di fornitura tende a prendere corpo più riducendo i singoli flussi bilaterali (“margine intensivo”) che tagliando i singoli rami (“margine estensivo”). Si pensi ad esempio al caso Boeing, la cui produzione mobilita 50 fornitori di 8 Paesi (Giappone, Corea del Sud, Canada, Francia, Italia, Svezia, Regno Unito, Austria).
In terzo luogo, non è ancora esaurita l’onda lunga degli effetti delle principali determinanti della citata “iperglobalizzazione”. Tra questi: la spinta all’interdipendenza fra Paesi che origina dalle innovazioni tecnologiche e organizzative che nascono dall’Information and communication technology e dal suo moltiplicarsi secondo la nota legge di Moore, il rapido diffondersi dell’e-commerce negli scambi internazionali (meritevolmente promosso in Italia, per inciso, dall’attuale gestione dell’Agenzia Ice), il tendenziale calo del livello medio dei dazi oltre le guerre commerciali scatenate da Trump, l’allargarsi degli Accordi di liberalizzazione degli scambi intra-asiatici, l’evoluzione dei regimi ex-socialisti verso regole più vicine ai mercati.
Quanto alla paura della Cina in Occidente, fa ben sperare la accorta presidenza Biden sull’altro lato dell’Atlantico, ma più ancora il notevole potenziale moltiplicativo del recente Eu-China comprehensive agreement on investment, se si tiene conto che gli investimenti diretti esteri dell’Europa negli Stati Uniti sono 15 volte quelli in Cina e che gli investimenti diretti esteri cinesi in Europa sono un ventesimo di quelli statunitensi.
Il ritorno nostalgico a nazionalismi-sovranismi-protezionismi trova fortunatamente sul campo molti vaccini pro-global.