Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2018
Non sarà da raccogliere la provocazione di Jeffrey Sachs (Project Syndicate, 3 luglio 2018) che cita l’opinione di autorevoli medici americani esperti di malattie mentali, secondo cui Trump è chiaramente affetto da tre psicopatologie: paranoia (lotto contro nemici immaginari), mancanza di empatia (danneggio gli altri per perseguire i miei fini), sadismo (godo nell’umiliare gli avversari). Ma certamente va crescendo, anche nel mondo del business USA, l’ansia circa i possibili effetti fuori controllo del “bullismo” del presidente, ossessionato dal deficit commerciale della prima potenza economica del mondo. E ci sono ragioni per pensare che la strategia aggressiva-unilaterale-imprevedibile-ondivaga del soggetto sia anche autolesionista.
Primo, i dazi sull’acciaio (25%) e alluminio (10%), motivati dall’implausibile minaccia alla sicurezza nazionale (le “scorte strategiche” previste dalla Sezione 232/301 del Trade Expansion Act del 1962), mirano a difendere 80.000 posti di lavoro nell’industria metallurgica danneggiando però la competitività (rincaro dei costi) di almeno 900.000 posti lavoro nell’industria dell’auto e altri milioni di addetti nei numerosi settori a valle utilizzatori di questi semilavorati. C’è proporzione?
Secondo, le minacce unilaterali di altre misure protezionistiche contro Cina, Europa, Canada, Messico hanno già favorito la risposta congiunta sotto forma di dazi di rappresaglia di questi paesi , che pesano per due terzi delle esportazioni USA. Sia pure nei tempi lunghi delle procedure previste dalle regole della WTO, secondo le autorevoli stime del Peterson Institute di Washington potrebbero arrivare a colpire un terzo e più delle esportazioni USA di prodotti importanti nella bilancia commerciale USA come semi di soya e sorgo, carne suina, whiskies, motocicli, jeans, imbarcazioni. Il gioco vale la candela?
Terzo, la minaccia di ulteriori dazi del 25% su una lista iniziale di 1333 categorie di prodotti che pesano per 50 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina, motivati dalle “unfair trade practices” cinesi sui diritti di proprietà intellettuale e sulle tecnologie (Sezione 301 del Trade Act del 1974), rischia di sconvolgere consolidate filiere (catene globali di approvvigionamento) in cui le imprese USA dipendono fortemente da forniture cinesi in una vasta gamma di beni intermedi e attrezzature che includono computers, apparati di telecom, parti di aeromobile, reattori nucleari, plastiche, cuscinetti, trasformatori elettrici, pannelli solari, arredo, macchine agricole e industriali. Soprattutto l’Amministrazione USA sembra ignorare che quasi il 90% dei prodotti cinesi messi nel mirino dei dazi americani viene da imprese multinazionali USA che producono in Cina e altri paesi asiatici. Queste produzioni hanno un contenuto limitato di valore aggiunto (reddito) cinese e invece un rilevante valore aggiunto americano e di altri fornitori non cinesi, asiatici in particolare. Valore aggiunto che ovviamente verrebbe penalizzato dalle minori importazioni americane. In tal modo l’obiettivo di colpire il “Made in China 2025” si ritorce (autolesionismo) contro il prodotto “made by USA”.
Prodotti intermedi e semilavorati importati dagli USA da Canada-Messico-UE-Cina contengono più di un quinto di valore aggiunto americano. Laura Tyson (Project Syndicate, 18 giugno) stima che l’86% delle importazioni totali USA di computer, 63% delle importazioni di attrezzature elettroniche, 59% delle importazioni di meccanica non elettrica incorporano valore aggiunto contenuto nelle produzioni delle multinazionali che operano fuori dagli USA.
Quarto, l’onda montante di dazi e controdazi provoca tensioni redistributive tra settori e territori USA. Ad esempio, i produttori di semi di soya dipendono dalla Cina per il 60% delle propria produzione: i dazi cinesi di rappresaglia mettono quindi a dura prova la “farm belt” di fede trumpiana assai più della “rust belt” manifatturiera (Alessia Amighini, La Voce.info del 10 luglio).
Quinto, se la Cina reagisce riducendo le importazioni di veicoli dagli USA, colpisce le case automobilistiche americane che nel mercato cinese hanno trovato in questi anni un importante mercato di sbocco, mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro nel settore. La GM esporta più auto in Cina di quante ne venda sul mercato interno USA.