Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2020
La prospettiva dei fiumi di denaro europeo che dal prossimo anno si riverseranno sull’economia italiana, tra contributi a fondo perduto e prestiti rimborsabili a basso interesse, obbliga a chiederci di quale politica industriale il paese ha bisogno per uscire dalla logica dell’emergenza, la quale non incide sull’ormai trentennale drammatico rallentamento della produttività e dei redditi da lavoro. Una politica industriale veramente orientata a ritrovare dopo troppi anni un dinamismo perduto fatto di innovazione tecnologica e organizzativa che guarda al futuro, promuove le conoscenze, moltiplica posti di lavoro non precari, valorizza i talenti, non tradisce le aspettative dei giovani (e meno giovani) vittime dell’incertezza e della mediocrità degli standard di vita, rafforza la competitività e la crescita dimensionale delle nostre imprese.
Come segnalato ancora una volta dall’OCSE nell’Employment Outlook 2020, i nati dopo il 1970 si trovano sempre più spesso a ricoprire incarichi professionali che richiedono competenze al di sotto del proprio livello di istruzione. Sul mercato del lavoro non solo crescono i contratti precari, ma soprattutto scompaiono posti di lavoro a media competenza, con uscita di lavoratori anziani molto poco rimpiazzati da giovani neoassunti e parzialmente sostituiti dall’automazione. L’Italia è un caso di specie che sollecita il governo a non restare inerte.
La politica industriale da sola non risolve i problemi ma è un ingrediente indispensabile per trovare soluzioni. Mi limito a suggerire tre aspetti che dovrebbero caratterizzare una moderna politica industriale, chiamando le cose col loro nome al di là di certi ritualismi e reticenze corporative.
In primo luogo, va superata la logica dei fondi distribuiti a pioggia per accontentare tutti, in nome di una cosiddetta neutralità del governo rispetto alle “libere scelte del mercato”. Una voce autorevole come l’ex-commissario per l’Agenda Digitale Diego Piacentini, intervistato da Federico Fubini sul Corriere Economia del 21 settembre, invita ad usare i fondi UE per sostenere i settori di industria e servizi già forti che possono crescere, non solo sopravvivere. Qualcuno storce il naso perché sente odore di Stato programmatore? Certamente ci vuole coraggio politico, nel momento in cui la grande disponibilità di fondi UE richiama tutti a chiedere aiuti, ma è bene provarci.
In secondo luogo, non si combatte l’aborrito nanismo delle imprese continuando a fissare soglie massime di importo che incentivano i nani a restare tali, ad esempio limitando a 3 milioni (il ministro Patuanelli arriva a proporre 5 milioni) l’accesso a crediti d’imposta per investimenti in ricerca. C’è molta retorica e opportunismo politico dietro questa idea della quota di riserva per le PMI quando si parla di aiuti alle imprese. Va sostenuto Il nostro “quarto capitalismo” fatto di imprese vincenti di media dimensione. Occorre semmai incoraggiare la piccola impresa a connettersi ad altre imprese più grandi e collegarsi ai migliori Competence Centres per dare respiro maggiore alla propria strategia competitiva.
Nella Audizione dell’Istat alla V Commissione della Camera del 2 settembre sulle priorità di utilizzo del Recovery Fund, il direttore Roberto Monducci ricorda un dato che deve far riflettere, quando si auspica un maggior dinamismo delle imprese (propensione a investire in tecnologie abilitanti 4.0, digitalizzazione, innovazione organizzativa, formazione personale): a fronte di una maggioranza di imprese con più di 10 addetti che presentano un “profilo dinamico” medio o medio-basso, le PMI con dinamismo alto o medio-alto realizzano livelli di produttività del lavoro superiori perfino a quelli delle grandi imprese Vanno dunque incoraggiate politiche orizzontali di stimolo, ma senza dimenticare che 45.000 imprese su 204.000 (che rappresentano il 24% dell’occupazione e del valore aggiunto) andrebbero stimolate in modo selettivo e monitorate da appositi snelli comitati di valutazione di efficacia. Il continuo ricambio tra imprese eterogenee è un potente motore di sviluppo del sistema produttivo Non solo: bisogna incoraggiare maggiori interconnessioni tra reti e sotto-reti di imprese presenti nei 5 grandi “arcipelaghi” di industria e servizi (tradizionale, pesante, trasporti e logistica, servizi alle imprese e alle persone).
Infine vanno preferiti incentivi fiscali e automatici limitando le procedure a bando ministeriale (d’accordo con l’ex-ministro Calenda), ma premiando i soggetti che attivamente partecipano a progetti ad ampio respiro. Ci ricorda Francesco Profumo (Sole24Ore 22 settembre), che l‘Italia dovrà tra poco presentare alla Commissione e al Consiglio il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), le cui linee-guida sono state appena approvate dal CIAE (Comitato Interministeriale per gli Affari Europei). Andranno Indicate priorità per assicurarsi spazi operativi entro “progetti faro” (Green Deal, digitale, telecom, formazione, sociale). Progetti a forte base scientifica e tecnologica, non in ordine sparso, in cui una pluralità di imprese (grandi, medie, piccole) si impegnano a mettere a fattor comune le proprie risorse di attrezzature e capitale umano, superando gelosie e diffidenze nello spirito di vera “co-petition” (collaborazione e insieme concorrenza).
fabrizio.onida@unibocconi.it