Buono o cattivo? Dilemma irrisolto

Fabrizio Onida  (Sole 24Ore, 16 ottobre 2024)

Non è  certo compito delle istituzioni internazionali generare allarmismo nella pubblica opinione, ma  l’allarme lanciato ieri dal Fondo Monetario Internazionale sulla dimensione del debito pubblico globale offre l’occasione per tornare a riflettere sul rapporto debito pubblico/crescita  e più ancora su quella distinzione fra debito pubblico “buono” e “cattivo” che Draghi lanciò come provocazione nella sua relazione all’Accademia dei Lincei il 1 luglio 2021. Argomento preceduto da alcuni suoi interventi in particolare sul Financial Times.

Stiamo alla cronaca: il Fiscal Monitor del FMI ha segnalato ieri che il debito pubblico globale si avvicinerà entro un quinquennio a toccare il record storico di 100 trilioni di dollari (100% del Pil globale, salendo dall’attuale 93%). La soglia del 100% è già oggi ampiamente superata da vari paesi tra cui l’Italia al 140%, la Grecia al 166%, la Francia al 110%, Usa al 120%, senza parlare del Giappone oltre il 260%.  Allargando lo sguardo al debito totale, l’IIF (Institute of International Finance) lo calcola in 250% del PIL del mondo:  più della metà attribuibile a imprese e società finanziarie mentre il debito pubblico è solo circa  un quarto del totale (il resto è ripartito fra famiglie e Stato).

La teoria economica insegna che fra debito pubblico e crescita economica vi è una relazione causale bilaterale che non deve trarre in inganno: un maggior debito pubblico per sé tende a ritardare la crescita perché spiazza gli investimenti produttivi privati, ma al tempo stesso una minor crescita economica provoca maggior debito pubblico perché Stato e altra Pubblica Amministrazione  ricevono meno imposte.

Anche le variazioni dei tassi d’interesse e del tasso di inflazione hanno effetti ambigui sul debito pubblico:  maggiori tassi d’interesse aggravano la spesa pubblica per il servizio del debito pubblico, ma una maggiore inflazione che fa crescere il PIL nominale comporta una discesa del rapporto debito/PIL facendone  salire il denominatore.

Allievo di economisti come Modigliani Solow Caffè Steve, Draghi ci suggerisce che il debito pubblico è “cattivo” quando fondamentalmente alimenta spreco, assistenzialismo e corruzione (discorso a parte meritano le guerre che sembravano dimenticate), mentre è buono quando riflette un governo sano dell’economia. In particolare il debito è “buono” quando svolge funzioni essenziali come: a) fronteggiare eventi esogeni imprevisti (pandemia, disastri climatici) per proteggere la popolazione e l’ambiente; b) finanziare gli investimenti pubblici infrastrutturali nazionali e locali che non possiamo attenderci vengano pagati dagli attori privati: basti pensare a paesi come India, diversi paesi asiatici e in generale i paesi africani il cui sviluppo è fortemente frenato dalla mancanza di infrastrutture fisiche e invisibili; c) offrire sgravi fiscali e sussidi al settore privato per combattere la povertà assoluta e correggere le maggiori drammatiche disuguaglianze sociali che (come ben sanno i tre recentissimi Premi Nobel dell’Economia) nell’ultimo quarto di secolo hanno ripreso ad aumentare nella quasi totale indifferenza dei governi dei paesi sia avanzati che emergenti; d) consentire allo Stato di assumere il ruolo (purtroppo trascurato dagli amanti del liberismo puro) di Stato promotore e partner di progetti che accelerino l’evoluzione virtuosa del sistema educativo e produttivo nazionale verso la conquista e padronanza delle nuove tecnologie, facendo così crescere la qualità del “capitale umano” (ingrediente fondamentale del benessere e della produttività) e del “capitale sociale”.

Solo con queste prospettive va misurata l’efficacia dei governi, solo così si rende credibile il rientro da situazioni di “debito eccessivo” evitando politiche di austerità autolesioniste.

fabrizio.onida@unibocconi.it