Fabrizio Onida (Sole24Ore, 1 marzo 2022)
Meno di due settimane dopo gli inconcludenti incontri Usa-Russia a Ginevra del 10 gennaio, e altrettanto vane schermaglie in sede Osce e Nato a Bruxelles, il giocatore di poker nonchè cintura nera di judo Vladimir Putin ha giocato la mossa a sorpresa del riconoscimento diplomatico delle autoproclamate repubbliche russofone del Donbass. La mossa ha così spiazzato il legittimo governo ukraino di Volodymyr Zelenski, privo di copertura Nato, costringendolo ad accettare una sfida militare chiaramente impari, che in queste ore sta riproponendo scenari di guerra aperta nel cuore dell’Europa, a pochi anni di distanza dalle tragedie che hanno insanguinato il dissolvimento della Yugoslavia nell’area balcanica.
L’Unione Europea deve supportare in vario modo la sorprendente resistenza ukraina, ma non è chiaramente in grado di contrapporsi militarmente all’avanzata dei mezzi di guerra russi in questa spregiudicata invasione di uno Stato nominalmente sovrano. Come per gli Usa e le maggiori potenze economiche e militari dell’Occidente, le uniche armi politiche a disposizione sono un’ampia gamma di sanzioni commerciali e finanziarie, mirate a infliggere dolorosi costi agli esponenti del governo, del parlamento, delle imprese e più in generale alla popolazione del paese aggressore. Con la novità dei boicottaggi contro la Russia sui circuiti bancari internazionali (Swift) e sui grandi eventi sportivi mondiali. Ma come insegna la storia (da Cuba all’Iran, alla Corea del Nord, al Venezuela e altri conflitti più o meno vicini ad oggi), l’impatto delle sanzioni sulle parti belligeranti è incerto e soprattutto assai dilazionato nel tempo. Inoltre il costo delle sanzioni si ripercuote spesso anche pesantemente sugli interessi dei paesi che le impongono all’avversario, perché viviamo in un mondo di relazioni economiche e tecnologiche sempre più interdipendenti (emblematica è la dipendenza energetica di molti paesi europei dalle forniture di gas e petrolio russo). Lo strumento delle sanzioni va dunque attentamente calibrato per minimizzare gli eventuali effetti ritorsivi. Ciò nulla toglie alla necessità di accrescere al massimo la pressione europea e internazionale sull’autocrate Putin, per indurlo a negoziare al più presto la sospensione delle ostilità e così limitare le gravissime lacerazioni inflitte al popolo ukraino, incluso il pesante e pericoloso esodo dei rifugiati verso Polonia, Romania e altre aree dell’Europa orientale. Negli ultimi giorni si è forse aperto qualche spiraglio in questa direzione, pur scontando l’ambiguità tattica di cui Putin è maestro.
Ma anche se può apparire velleitario sognare fin da ora i tratti di una diplomazia della pace, l’Europa e l’Italia in particolare potrebbero provare ad allungare l’orizzonte strategico della nostra convivenza nel vecchio Continente. Una convivenza basata su una rinnovata cultura e nuove istituzioni civili capaci di parlare il linguaggio della reciproca tolleranza e di uno sviluppo economico e sociale diffuso, così diverso da una economia di guerra.
Si può sin d’ora provare a immaginare un negoziato largo che parta dal riconoscimento dei punti di forza e di debolezza ereditati dalla storia dei nostri paesi.
Punti di forza che vanno incanalati verso finalità pacifiche e verso la diffusione delle innovazioni tecnologiche di cui si nutre indirettamente il benessere della popolazione: nel caso della Russia e dei paesi satelliti si pensi allo sviluppo del nucleare civile, allo sfruttamento non distruttivo di risorse minerarie scarse (dal carbone a metalli pregiati come il platino e il titanio), all’avanzamento delle esplorazioni spaziali (tra l’altro la Russia è leader nelle produzione di veicoli di lancio satellitare).
Sono numerosi i punti di debolezza della Russia da cui partire per disegnare progetti di ricerca cooperativa con altri paesi europei tecnologicamente avanzati, mettendo a disposizione risorse umane, tecniche e finanziarie in cambio di un allargamento del mercato (nostalgia di Adam Smith) e una maggiore integrazione pacifica del continente.
Penso innanzi tutto a iniziative per intercettare la massiccia fuga di cervelli da Russia e paesi alleati offrendo facilitazioni per l’ammissione a scuole e università. Un capitale umano e scientifico contagiato dai valori positivi dell’Occidente è un’arma potente di dissuasione delle tentazioni interne dittatoriali e distruttive ricevute dal passato.
Penso a progetti ad alto potenziale di innovazione in campo civile, come prevenzione dei disastri ambientali causati da cambiamenti climatici (scongelamento del permafrost siberiano), difesa e risanamento ambientale, agricoltura biologica e difesa della biodiversità, chimica verde, housing per le grandi città, infrastrutture di trasporto e comunicazione.
Penso a cooperazione scientifica e tecnologica in campo epidemiologico e antivirale, di cui si è avvertita la mancanza nella frenetica corsa internazionale alla scoperta e sperimentazione dei vaccini anti-Covid.
Penso ai benefici reciproci che potrebbero derivare da maggiori investimenti diretti europei in Russia (ma anche nella più ampia area CEE, Ukraina inclusa) nei settori manifatturieri rivolti alla crescita dei consumi moderni, come auto-motoveicoli per la mobilità sostenibile, elettrodomestici e domotica, prodotti alimentari, arredo domestico, urbanistica.
Penso all’opportunità di favorire turismo e investimenti immobiliari russi, non solo delle classi straricche.
Forse è un libro dei sogni ma, mentre siamo costretti dalla cronaca quotidiana a osservare gli orrori della guerra ed a sperare nella resipiscenza dei comandi politici e militari per limitare il numero delle vittime innocenti , magari serve sollevare lo sguardo ad un possibile orizzonte di fiducia e reciprocità negoziata.
fabrizio.onida@unibocconi.it