Fabrizio Onida (Sole24Ore,19 gennaio 2025)
Passato un quarto di secolo dall’ingresso della Cina nella WTO (11 dicembre 2001), tornando alla Casa bianca Trump non avrà vita facile nel declinare il suo MAGA nei confronti della Cina, il cui rapidissimo avanzamento come rivale geopolitico (non chiamiamolo “nemico”!) continua a sorprendere il mondo. Secondo Richard Baldwin (IMD Business School di Losanna) la quota della Cina sulla produzione lorda globale già nel 2020 superava il 35% (era il 5% nel 1995), il triplo della somma dei primi 10 paesi nella graduatoria, qualificando la Cina come “l’unica superpotenza manifatturiera mondiale”. Come ha ricordato Blinken nei suoi numerosi colloqui a Pechino, la Cina copre oggi un terzo della produzione mondiale ma solo un decimo della domanda globale.
Nel piano strategico “Made in China 2025” lanciato da Xi Jinping nel 2022 si fissano obiettivi ambiziosi in un’ampia gamma di settori avanzati, dal fotovoltaico a veicoli elettrici, robotica, telecomunicazioni satellitari, aerospazio, biotecnologie. Ma nel 14° Piano quinquennale 2021-2025 cinese solo un capitolo è dedicato ai consumi. Il governo ha cercato, senza riuscirci, di rilanciare i consumi domestici incoraggiando le famiglie a sostituire vecchi con nuovi consumi durevoli, dalle auto agli elettrodomestici. Il rapporto tra consumi delle famiglie e Pil è addirittura sceso dal 45% (fine anni ’90) al 37%, a confronto con una media mondiale del 60%.
Tutto ciò alimenta uno squilibrio di fondo dovuto alla massiccia presenza di sovra-capacità produttiva rispetto alla domanda interna nella quasi totalità dei settori manifatturieri. La sovracapacità produttiva induce le imprese ad abbassare i prezzi dell’offerta fino alla pratica dei “prezzi predatori”, mantenendo prezzi e profitti ai minimi storici. Ma così facendo le imprese sono costrette a indebitarsi col sistema bancario e a chiedere a Stato e Regioni sussidi pubblici per non chiudere i battenti e aumentare la disoccupazione. Una guerra al ribasso dei prezzi d’offerta rischia di creare un circolo vizioso di dis-inflazione-caduta di redditività delle imprese-maggior ricorso ai sussidi pubblici.
Tutti i manuali di economia politica riportano la relazione macro economica di fondo per cui bassi consumi, basse importazioni e un persistente eccesso di risparmio nazionale rispetto agli investimenti nazionali (il caso della Cina) trova come contropartita un pari avanzo nella bilancia dei pagamenti correnti verso l’estero. Simmetricamente, una scarsità di risparmio rispetto agli investimenti (il caso degli Usa) si traduce in disavanzo della bilancia corrente con l’estero, il che in particolare affligge Trump.
In questo contesto, la ricetta di Trump di imporre pesanti dazi alle importazioni dalla Cina potrebbe tuttavia paradossalmente comportare, oltre ai ben noti pericoli del protezionismo, qualche benefica ricomposizione nella geografia degli scambi internazionali. Tra i costi del protezionismo basti ricordare il rischio di rappresaglie cinesi ai danni delle esportazioni verso la Cina (ormai secondo-terzo mercato mondiale in diversi settori), la penalizzazione delle imprese americane che per produrre dipendono dall’ importazione di componenti cinesi lungo catene di approvvigionamento globale, il sacrificio dei consumatori americani a reddito medio-basso che maggiormente beneficiano delle importazioni di prodotti finiti cinesi a basso prezzo.
Ma, se ben gestita (ardua condizione!), l’arma di Trump di dazi aggressivi contro la Cina potrebbe comportare conseguenze positive almeno sotto due profili. Va ricordato che viviamo in un mondo di mercati assai imperfetti e oligopolistici, dove il “potere di mercato” vale quanto o più dei meriti competitivi.
In primo luogo la Cina potrebbe subire una forte pressione per cominciare a cambiare rotta e varare una forte politica di rilancio dei consumi interni, contrastando l’eccesso di capacità produttiva che spinge gli esportatori cinesi a praticare prezzi predatori in dumping. Sotto questo profilo la minaccia credibile di una politica aggressiva di dazi verso la Cina potrebbe innescare la ricerca di un migliore equilibrio nella politica macroeconomica di Xi Jinping.
In secondo luogo, come già iniziato negli scorsi mesi, continuerebbe la forte spinta verso investimenti diretti cinesi nei paesi da cui poi esportare in Europa e nel mondo prodotti finiti e semilavorati in grado di aggirare i dazi imposti unilateralmente sulle merci made in China. Ad esempio, nel 2019-2023 la Malesia ha attratto diversi miliardi di dollari di investimenti in entrata in settori di logistica e componenti elettroniche provenenti da Cina e Usa. E, preferibili ai dazi, non dimentichiamo le “restrizioni volontarie all’export” negoziate con successo da Reagan con il Giappone, una eredità a cui forse Trump potrebbe dedicare maggior attenzione.
fabrizio.onida@unibocconi.it