Trump e le attese dei mercati
Fabrizio Onida, Sole 24Ore, 31 gennaio 2025)
Tornando alla Casa Bianca Trump eredita una congiuntura favorevole (crescita e produttività per ora lavorata in ripresa, occupazione quasi piena, tassi d’interesse e inflazione stabili o in discesa, la Borsa ottimista), sia pure con bilancio pubblico lontano dall’equilibrio. Ma guardando oltre la congiuntura di breve termine i toni trionfalistici del discorso dell’inaugurazione (è finito il declino, torneremo ad essere una nazione manifatturiera “libera sovrana e indipendente”) sono destinati a stemperarsi di fronte all’evidenza di fenomeni meno rosei, quali in particolare: a) la continua avanzata della Cina sulla frontiera avanzata delle tecnologie: emblematico l’appena annunciato modello R1 della giovane startup di intelligenza artificiale DeepSeek, dotato di algoritmi di straordinaria potenza che sfidano il primato dell’americana OpenAI senza dover dipendere dall’importazione di chips avanzati della statunitense Nvidia; b) sul fronte geopolitico la palese difficoltà a restaurare qualche forma di “pax americana” nel quadro tormentato delle numerose guerre (Ukraina e Medio Oriente in testa) al di là delle battute da campagna elettorale; c) le massicce pressioni migratorie che minacciano i confini del Mediterraneo e dell’emisfero Nord-americano. Colpisce la disinvoltura con cui Trump prefigura pesanti dazi contro Messico e Canada, a pochi anni dalla proclamazione della zona di libero scambio nordamericana USMCA. E colpisce che Trump pensi che i dazi in dogana siano uno strumento utile per abbattere il traffico di droghe come l’oppioide letale sintetico fentanyl, in mano ai potentissimi narcotrafficanti. Vi è un totale scollamento fra lo strumento impiegato (dazi che colpiscono i normali traffici commerciali alla frontiera) e l’obiettivo di ostacolare efficacemente il narcotraffico.
Nella visione di Trump i dazi sembrano essere il principale strumento di politica economica estera, anche se a Davos l’autorevole amministratore legato di JPMorgan Chase J.Dimon si è sbilanciato a prevedere che molto presto il pragmatico Trump ammorbidirà i toni bellicosi da guerra dei dazi non appena emergeranno i suoi effetti nocivi (rialzo dei prezzi interni; calo delle esportazioni statunitensi provocato dalle plausibili rappresaglie dei governi colpiti dal protezionismo a stelle e strisce). Ma sul pericolo di mosse e contromosse ostacolo all’ordinato sviluppo degli scambi hanno lanciato prevedibili allarmi i vertici di organizzazioni economiche internazionali come IMF, WTO, OCSE.
Va salutata con favore l’apertura di un dibattito bi-partisan sul tema tabù di come disegnare una efficace politica industriale negli Usa, dopo decenni in cui l’Antitrust si è sempre limitato a difendere i diritti dei consumatori contro le concentrazioni monopolistiche, lasciando che il libero mercato decida le sorti della competitività internazionale del sistema produttivo e dei suoi riflessi favorevoli o sfavorevoli su sviluppo delle imprese, volumi e qualità dell’occupazione, crescita o arretramento del capitale umano del paese. Ossessionato dal persistente deficit Usa negli scambi commerciali di merci (e tralasciando di notare il quasi equivalente surplus Usa nella bilancia dei servizi) Trump teme solo la scarsità delle fonti di energia fossile, che promette di controbattere al motto di “drill baby drill” in barba agli impegni internazionali per la decarbonizzazione ambientale.
Parlando di energia, Trump non esita a parlare di una “emergenza energetica nazionale”, anche per il moltiplicarsi di centri di calcolo altamente energivori (un dato peraltro ignorato dalla comune stampa di informazione), ma – almeno per ora – non sembra cogliere la contraddizione tra fatti inconfutabili (oggi negli Usa il totale delle fonti eoliche e solari non fornisce nemmeno il 15% della domanda di generazione elettrica) e misure di politica ndustriale. Tanto che la penna del noto puntuto opinionista del New York Times Thomas Friedman (28 gennaio 2025) ha citato una provocazione di Michael Bloomberg “E’ come far scattare l’allarme e insieme licenziare il personale dei vigili del fuoco”.
Pur mantenendo in vigore i dazi anti-Cina del suo predecessore Trump-1, Biden aveva avviato una politica industriale attiva sul fronte dell’innovazione manifatturiera (Chips&Science Act) e delle energie pulite (Inflation Reduction Act). Nei quattro anni dell’amministrazione Biden sono stati creati più di 700.000 posti di lavoro nel settore manifatturiero, anche per un effetto di rimbalzo dopo il crollo occupazionale causato dal COVID-19. Ora siamo in attesa di un disegno minimamente compiuto di interventi di politica industriale che possano caratterizzare il secondo governo Trump-2.
fabrizio.onida@unibocconi.it
Trump e le attese dei mercati
Fabrizio Onida, Sole 24Ore, 31 gennaio 2025)
Tornando alla Casa Bianca Trump eredita una congiuntura favorevole (crescita e produttività per ora lavorata in ripresa, occupazione quasi piena, tassi d’interesse e inflazione stabili o in discesa, la Borsa ottimista), sia pure con bilancio pubblico lontano dall’equilibrio. Ma guardando oltre la congiuntura di breve termine i toni trionfalistici del discorso dell’inaugurazione (è finito il declino, torneremo ad essere una nazione manifatturiera “libera sovrana e indipendente”) sono destinati a stemperarsi di fronte all’evidenza di fenomeni meno rosei, quali in particolare: a) la continua avanzata della Cina sulla frontiera avanzata delle tecnologie: emblematico l’appena annunciato modello R1 della giovane startup di intelligenza artificiale DeepSeek, dotato di algoritmi di straordinaria potenza che sfidano il primato dell’americana OpenAI senza dover dipendere dall’importazione di chips avanzati della statunitense Nvidia; b) sul fronte geopolitico la palese difficoltà a restaurare qualche forma di “pax americana” nel quadro tormentato delle numerose guerre (Ukraina e Medio Oriente in testa) al di là delle battute da campagna elettorale; c) le massicce pressioni migratorie che minacciano i confini del Mediterraneo e dell’emisfero Nord-americano. Colpisce la disinvoltura con cui Trump prefigura pesanti dazi contro Messico e Canada, a pochi anni dalla proclamazione della zona di libero scambio nordamericana USMCA. E colpisce che Trump pensi che i dazi in dogana siano uno strumento utile per abbattere il traffico di droghe come l’oppioide letale sintetico fentanyl, in mano ai potentissimi narcotrafficanti. Vi è un totale scollamento fra lo strumento impiegato (dazi che colpiscono i normali traffici commerciali alla frontiera) e l’obiettivo di ostacolare efficacemente il narcotraffico.
Nella visione di Trump i dazi sembrano essere il principale strumento di politica economica estera, anche se a Davos l’autorevole amministratore legato di JPMorgan Chase J.Dimon si è sbilanciato a prevedere che molto presto il pragmatico Trump ammorbidirà i toni bellicosi da guerra dei dazi non appena emergeranno i suoi effetti nocivi (rialzo dei prezzi interni; calo delle esportazioni statunitensi provocato dalle plausibili rappresaglie dei governi colpiti dal protezionismo a stelle e strisce). Ma sul pericolo di mosse e contromosse ostacolo all’ordinato sviluppo degli scambi hanno lanciato prevedibili allarmi i vertici di organizzazioni economiche internazionali come IMF, WTO, OCSE.
Va salutata con favore l’apertura di un dibattito bi-partisan sul tema tabù di come disegnare una efficace politica industriale negli Usa, dopo decenni in cui l’Antitrust si è sempre limitato a difendere i diritti dei consumatori contro le concentrazioni monopolistiche, lasciando che il libero mercato decida le sorti della competitività internazionale del sistema produttivo e dei suoi riflessi favorevoli o sfavorevoli su sviluppo delle imprese, volumi e qualità dell’occupazione, crescita o arretramento del capitale umano del paese. Ossessionato dal persistente deficit Usa negli scambi commerciali di merci (e tralasciando di notare il quasi equivalente surplus Usa nella bilancia dei servizi) Trump teme solo la scarsità delle fonti di energia fossile, che promette di controbattere al motto di “drill baby drill” in barba agli impegni internazionali per la decarbonizzazione ambientale.
Parlando di energia, Trump non esita a parlare di una “emergenza energetica nazionale”, anche per il moltiplicarsi di centri di calcolo altamente energivori (un dato peraltro ignorato dalla comune stampa di informazione), ma – almeno per ora – non sembra cogliere la contraddizione tra fatti inconfutabili (oggi negli Usa il totale delle fonti eoliche e solari non fornisce nemmeno il 15% della domanda di generazione elettrica) e misure di politica ndustriale. Tanto che la penna del noto puntuto opinionista del New York Times Thomas Friedman (28 gennaio 2025) ha citato una provocazione di Michael Bloomberg “E’ come far scattare l’allarme e insieme licenziare il personale dei vigili del fuoco”.
Pur mantenendo in vigore i dazi anti-Cina del suo predecessore Trump-1, Biden aveva avviato una politica industriale attiva sul fronte dell’innovazione manifatturiera (Chips&Science Act) e delle energie pulite (Inflation Reduction Act). Nei quattro anni dell’amministrazione Biden sono stati creati più di 700.000 posti di lavoro nel settore manifatturiero, anche per un effetto di rimbalzo dopo il crollo occupazionale causato dal COVID-19. Ora siamo in attesa di un disegno minimamente compiuto di interventi di politica industriale che possano caratterizzare il secondo governo Trump-2.