Fabrizio Onida (Sole 24Ore, 21 marzo 2023)
La crisi della Silicon Valley Bank, con i suoi effetti di ricomposizione della geografia del sistema bancario euro-americano, segnala ancora una volta il pericolo di una ubriacatura mal governata da finanza iperglobalizzata. Inevitabile l’esplosione di articoli e libri che cercano di scrutare l’orizzonte della ormai matura globalizzazione dei mercati e delle potenze economiche nel mondo.
Dani Rodrik (What’s next for globalization? Project Syndicate, May 9 2023) traccia un ampio arco storico, dal trionfo del liberalismo dell‘800 al collasso del gold standard negli anni ’20, alla nascita del Fondo Monetario Internazionale a Bretton Woods nel 1944, al temporaneo trionfo del neoliberismo dagli anni ’80 in poi fino alla crisi finanziaria del 2008. Da allora è assai cresciuta l’attenzione dei governi a temi come eccessive disuguaglianze sociali, pandemie e tutela della salute pubblica, cambiamenti climatici, rivalità geopolitica USA-Cina. Dopo la politica neo-protezionista di Trump, Biden ha mantenuto vari dazi sull’import dalla Cina che colpiscono scambi di circa 300 miliardi di dollari, ma insieme ha fortemente rilanciato il ruolo della politica industriale nelle moderne democrazie tramite sussidi all’offerta.
Nel frattempo la Cina ha consolidato la sua posizione di primo esportatore e primo importatore globale Secondo calcoli dell’Economist (28 maggio 2022) con dati su 120 settori manifatturieri, nel 2005 la Cina copriva già un quarto dell’export globale, e nel 2019 era salita a due terzi.
La tecnologia gioca un ruolo crescente nella composizione settoriale degli scambi con l’estero. L’80% dei pannelli solari nel mondo è oggi prodotto in Cina.
Negli ultimi 20 anni la Cina ha portato dal 1% al 2,4% la quota del proprio Pil investito in Ricerca e Sviluppo, raggiungendo la media dei paesi Ocse (l’Italia è ferma all’1,5%). La Cina è inoltre una crescente importatrice di licenze d’uso di proprietà intellettuale, con una quota dell’8,4% sugli esborsi cross-border.
La cinese SMIC ha annunciato nell’estate 2022 di aver raggiunto con successo la produzione di un chip da 7 nm.
Di fronte alla paura di una Cina che domina i mercati, va ricordato che più di un quinto del commercio mondiale riguarda settori di servizi, in cui la competitività e l’attrattività internazionale di un paese dipendono sempre meno dalla leva dei bassi salari e dei sussidi all’industria, rispetto alla capacità tecnologica e all’attrazione di una società dove sono rispettate libertà civili, libertà d’opinione e libertà di organizzazione sociale e sindacale.
Il respiro della politica estera della Cina di Xi Jinping va ben oltre la rivalità con l’Occidente. Da novembre in poi il sud-est asiatico trainato dalla Cina è stato protagonista della scena internazionale, attraverso eventi come l’East Asia Summit in Cambogia, il G20 in Indonesia, l’Apec in Tailandia.
Xi Jinping ha oggi una grande sfida nel programma di Food security sostenuto dalla China Investment Corporation, fondamentale per portare avanti la lotta contro la povertà (aumentare la produzione di riso, grano e altri prodotti alimentari di base). Gli Usa hanno l’opportunità di cambiare rotta sulla guerra commerciale iniziata nel 2018 quando la Cina introdusse dazi di rappresaglia contro grano, soya e altre derrate agricole importate dagli Usa.
Le sanzioni Usa contro Huawei nella guerra dei chips, dominata da preoccupazioni del governo Usa sulla sicurezza, vanno attentamente tenute sotto osservazione, anche sorvegliando le attività di spionaggio dei cinesi tramite i loro insediamenti produttivi all’estero (Ue Usa). Ma bisogna evitare che la giusta difesa contro lo spionaggio crei ostacoli insormontabili alla circolazione dei cervelli e ad una partecipazione mirata di ricercatori e docenti cinese a grandi programmi di ricerca sulle frontiere avanzate dello sviluppo tecnologico.
Hank Paulson, Jr. (ex-ministro Tesoro Usa) da tempo sottolinea come sia un errore dell’amministrazione Biden l’insistenza sul disaccoppiamento (decoupling) US-Cina mentre il Resto del Mondo sta allargando i propri rapporti d’affari con la Cina. Lui vede il rischio di un “muro di Berlino” fra Usa e Cina dopo che per 40 anni c’è stata una integrazione di beni, capitali, tecnologie, popolazione. Tutto è cambiato da quando Trump ha messo Huawei nella “Entity list”. Ricercatori, docenti, studenti cinesi negli Usa si sentono silenziosamente discriminati, sospettati di spionaggio.
Faccio mie le parole di quell’acuto giornalista libero pensatore che è Tom Friedman, il quale sul WSJ del 28.11.2019 condivideva così le tesi di Paulson “La Cina è nostro concorrente, partner economico, fonte di talenti e capitali, rivale geopolitico (…) non è nostro amico né nostro nemico”. E’ pur vero che da allora si è andata accentuando la figura di Xi Jinping come detentore di un potere assoluto capo di un partito unico che sostituisce lo Stato, con ambizioni planetarie (Le Monde, 19 marzo) ma ciò suggerisce come oggi sia bene per l’Occidente e l’Europa in particolare – diversamente da casi storici come il nazismo di Hitler e il nazional fascismo di tanti dittatori asiatici e latino-americani – trattare con Xi come rivale geopolitico e non come nemico.
Un approccio condiviso anche dal rapporto speciale dell’Economist “A world divided-The world China wants” (15 ottobre 2022), che vede il pericolo di una “deglobalizzazione” trainata da una Cina progressivamente meno dipendente dalle tecnologie occidentali e un Occidente in cui i gruppi multinazionali dipendono invece sempre più dall’offerta cinese di prodotti che spaziano dai telefoni cellulari agli antibiotici.. Contro le tentazioni di una fantomatica deglobalizzazione, Gianmarco Ottaviano prefigura una “riglobalizzazione” (Egea 2023), cioè una globalizzazione che si evolve verso un mondo di interdipendenza selettiva in cui crescono in prospettiva due gruppi integrati di paesi relativamente affini tra loro, facenti capo a Usa e Cina. E’ una prospettiva avveniristica su cui riflettere con spirito critico ma senza pregiudizi.
fabrizio.onida@unibocconi.it