Fabrizio Onida (Sole24Ore 28 aprile 2022)
Pandemia e guerra Russia-Ukraina quasi costringono i governi europei a stringere le maglie a difesa degli interessi strategici intesi in un‘accezione molto ampia. Commissione, Consiglio e Parlamento europeo giocano di sponda nel richiamare i governi nazionali alla necessità di una “autonomia strategica” che obblighi a rivedere le regole della politica industriale tecnologica e della concorrenza. Una attenzione crescente alla “geopolitica” permea dibattiti giornalistici, riletture storiche e analisi scientifiche multidisciplinari nel tentativo di rispondere a potenti sollecitazioni dell’opinione pubblica per meglio comprendere fenomeni rimasti a lungo fuori della scena quotidiana. Le strade da percorrere per i governi sono segnate da ansie e incertezze, il rischio è di cercare scorciatoie e ingannevole consenso politico. Cerchiamo di fissare alcuni punti.
Per cominciare, con la memoria storica del veto posto dalla Francia al progetto di una politica della Difesa come parte integrante dell’Unione Europea (1952), segnalo l’argomento di Riccardo Perissich (Longanesi 2008 e “Aspenia” n. 95, 2021) – secondo cui il concetto di “autonomia strategica” nasconde ambiguamente una visione francese tipicamente neogollista di autonomia dall’America (altra faccia del Trumpismo) e una “sindrome svizzera” tipicamente economicistica. Quest’ultima visione, fortemente condivisa dalla Germania, mira ad assicurarsi la protezione militare americana al minimo costo, mantenendo il massimo confronto con Cina (incluso il tema critico dei “valori”), Giappone, Corea del Sud e i nuovi protagonisti del continente asiatico. Contro la visione neogollista vale l’osservazione che tutte le recenti sfide di politica internazionale (Afghanistan, Libia, Iran, Sahel, Turchia, Russia…) non possono realisticamente prescindere da un’alleanza europea con gli Usa nella cornice della Nato.
Lo scorso 21 marzo Il Consiglio della Ue ha diffuso un lungo documento da titolo “Una bussola strategica per la sicurezza e la difesa”. L’attuale guerra Russia-Ukraina porta a rafforzare questo consolidato legame atlantico, pur lasciando aperti molti interrogativi circa il progetto di una politica europea della Difesa, ad esempio: Unione o Confederazione? Diritti nazionali di veto? Quale ripartizione degli oneri di finanza pubblica?
Ma oltre il tema della sicurezza, impropriamente invocato da Trump quando ha scatenato la guerra dei dazi su acciaio e alluminio (per ora non cancellati da Biden), si è giustamente riaperto il dibattito su quale politica industriale, dell’innovazione e della concorrenza la Ue voglia perseguire. Ci aspettiamo ulteriori sviluppi dell’importante Comunicazione della Commissione UE del 5 maggio 2021 rivolta al Parlamento, al Consiglio, al Comitato Economico sociale e al Comitato delle Regioni, dal titolo impegnativo “Strategic dependencies and capacities. Updating the 2020 New Industrial Strategy”. Di fronte al velocissimo mutare della concorrenza tecnologica e dei mercati (Giappone, Cina, India, Sud Corea in testa) appaiono sempre più sterili le disquisizioni politiche e accademiche che hanno caratterizzato il dibattito prevalentemente italiano, come quelle su politica dei settori vs. politica dei fattori, incentivi alle imprese automatici vs. incentivi discrezionali (in particolare volti a promuovere aggregazione tra imprese nella ricerca pre-competitiva), programmi “mission oriented” vs. diffusione tecnologica nei territori, neutralità tecnologica della politica industriale.
Va da sé che sono le imprese a decidere sui propri investimenti e disegnare le proprie catene di fornitura globale. Ma queste decisioni sono inevitabilmente condizionate dallo “Stato promotore” (Astrid, Lo Stato promotore, Mulino 2021) che investe in infrastrutture fisiche e di istruzione-ricerca a livello nazionale e locale, finanzia la partecipazione dei propri centri (di eccellenza o meno) ai programmi europei di ricerca e sviluppo, favorisce la crescita dimensionale delle aziende e dei laboratori, incoraggia forme di partenariato pubblico-privato, promuove regole di competizione aperta e insieme di cooperazione/partnership tra imprese e centri di ricerca. Gli stessi centri decisionali delle strategie di investimento dei grandi e medi gruppi multinazionali a capitale estero operanti in Italia auspicano che la politica industriale nazionale non solo acceleri e semplifichi le procedure autorizzative e regolamentari del “doing business in Italy”, ma segnali le grandi priorità di sviluppo socio-economico e civile a cui il settore privato è chiamato a contribuire.
Incentivi automatici “a pioggia” non contribuiscono a indirizzare i programmi delle imprese (grandi,medie,piccole) verso quegli obiettivi di maggiore “indipendenza strategica” dai paesi più forti e minore dipendenza dall’importazione di materie prime di cui i paesi europei sono largamente sprovvisti. Nell’approvvigionamento delle materie prime il governo italiano sta oggi pensando a linee di credito per incoraggiare “import strategico” da paesi alternativi a Russia e Ukraina compatibili con il “Temporary Framework” della UE sugli aiuti di Stato. Cominciando dai primi 15 su 191 miliardi previsti di finanziamento europeo del “Recovery Plan” (decreto legge 77) vedremo alla prova nei prossimi mesi la capacità dei nostri governi di implementare le azioni dettagliatamente articolate nelle sei “Missioni” del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, maggio 2021), su 520 pagine nella versione pubblicata dai libri del Sole24ore: 1)Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura; 2) Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3) Infrastrutture per una mobilità sostenibile; 4) Istruzione e ricerca; 5) Coesione e inclusione; 6) Salute.
Da segnalare infine che, senza nessun proclama di autonomia strategica, il Giappone ha conquistato un vero primato mondiale nella robotica, settore importante per rispondere alla crescente scarsità di manodopera alla luce del programma “Society 5.0”. Il progetto ASIMO (Advanced Steps for Innovative Mobiliy), lanciato da Sony nel 1986 e successivamente sviluppato da Honda col famoso robot umanoide, oggi è superato dall’evoluzione verso robots avatar che lavorano a distanza. Già da tempo gli impieghi della robotica spaziano dalla telemedicina alle catene di montaggio, agli interventi di emergenza in ambienti ostili. I giganti della robotica (come Sony, Honda, Fanuc, Yaskawa America, Kuka, Kawasaki Heavy Industry,) coprono oggi il 45% della domanda mondiale, che è prevista triplicarsi entro il 2027. L’Italia con Comau (oggi parte di Stellantis) occupa una nicchia rilevante con 9 stabilimenti in 13 paesi: un esempio che va oltre la frequente retorica delle PMI italiane.