L’America di Biden prova a riscoprire le virtù della concorrenza

Fabrizio Onida, Sole24Ore 13 agosto 2021

Con un approccio ben diverso dall’appello di Trump “Make America great again”, la Casa Bianca di Jo Biden ha emanato lo scorso 9 luglio un ordine esecutivo mirato a “Promoting competition in the American economy”, che implicitamente invita anche l’Unione Europea a ripensare e rilanciare l’azione del governo in difesa della concorrenza sul mercato dei prodotti con implicazioni anche per il mercato del lavoro.

Nei recenti decenni, ma in modo vistoso negli anni 2000, gli Usa hanno registrato una accelerazione nei fenomeni di concentrazione societaria, a differenza dall’Europa dove i relativi indici mostrano semmai un lieve calo. Secondo un editoriale del Financial Times del 1 agosto, al di là delle 72 misure che questo documento della Casa Bianca elenca per combattere il diffondersi di pratiche nocive alla libera concorrenza, Biden lancia una sfida addirittura per “ribilanciare il capitalismo americano” in direzione non solo di difesa dei consumatori ma anche  di migliori retribuzioni del lavoro dipendente.

Un caso particolare, ma di  grande rilevanza sociale, è costituito dai prodotti farmaceutici. Negli Usa i cittadini pagano prezzi anche 2,5 volte superiori a quelli dei farmaci venduti negli altri paesi avanzati. I profitti delle case farmaceutiche statunitensi raggiungono tassi del 15-20 per cento sul capitale investito, contro una media del 4-9 per cento negli altri settori.

Thomas Philippon (The Great Reversal. How America gave up on  Free Markets, 2019) nota che nella seconda metà dello scorso secolo i profitti societari pesavano in media 6 per cento del Pil, mentre  negli anni 2000 sono saliti al 9 percento, traducendosi prevalentemente non in maggiori investimenti ma in maggiori dividendi per gli azionisti. Jan Eeckout (The Profit Paradox, 2021) segnala che negli anni ’80 i profitti medi erano circa il un  decimo dei costi del lavoro, mentre a metà degli anni 2000 il rapporto è salito al 30 per cento (42 per cento nel 2012). Senza dimenticare il corposo (pur controverso) contributo di Thomas Piketty sul “Capitale nel XXI secolo”, 2014.

Con markups sulle vendite triplicati a favore dei profitti, le famiglie pagano prezzi più alti per beni di  prima  necessità come medicine e apparati acustici. Tramite accordi collusivi “pay for delay” le case produttrici maggiori ritardano l’introduzione sul mercato di farmaci generici fuori brevetto a basso costo, causando costi per i consumatori stimati nell’ordine di 3,5 miliardi di dollari all’anno.  Restrizioni  amministrative all’importazione di farmaci dal Canada riducono il grado di concorrenza tra prodotti similari.

Come esempi di pratiche restrittive della concorrenza, il documento della Casa  Bianca cita contratti di distribuzione in esclusiva che bloccano l’ingresso di nuovi attori più efficienti, contratti di esclusività nella fornitura di servizi Internet che frenano l’accesso alla banda larga, limitazioni al commercio di sementi e fertilizzanti in  agricoltura che impongono alle aziende agricole di minore dimensione la dipendenza da pochi fornitori oligopolisti, clausole di sovracosto nello smistamento dei bagagli nei trasporti aerei, e varie altre ancora.

Tutto ciò non è casuale, discende  soprattutto da  precise scelte politiche che vedono i governi negli Usa troppo tolleranti nei confronti dei potenti gruppi di pressione (lobbies) che capillarmente assalgono i parlamentari, i funzionari delle diverse agenzie governative e gli stessi membri delle autorità di regolazione dei  mercati, secondo la nota “cattura dei regolatori” da parte dei regolati.

La crescita del “potere di mercato”, che deriva da (e a sua volta alimenta)  la formazione di soggetti industriali con posizioni monopolistiche, anche a prescindere da politiche governative tolleranti, riflette in larga misura la diffusione delle tecnologie di informazione e comunicazione (ICT) che hanno trasformato molti settori soprattutto nei servizi, moltiplicando le  piattaforme internet globali e producendo il fenomeno dei  giganti delle ICT. Giganti dotati di enorme potere di mercato e conseguente capacità di frenare la concorrenza, con vari strumenti fino all’assorbimento di potenziali concorrenti prima che essi  diventino avversari temibili. Casi di specie recenti sono l’acquisizione  di Instagram da parte di Facebook  e di YouTube da  parte di Google. 

Le 10 maggiori imprese globali includono oggi 8 statunitensi (incluse le famose GAFAM: Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft),  2 cinesi (Alibaba, Tencent) e nessuna europea.   

La redistribuzione dei redditi dagli anni ’80 in poi a favore di profitti (e rendite!) riflette l’accresciuto peso dei cosiddetti intangible assets nei processi  produttivi e nell’accumulazione degli investimenti, fenomeno che  peraltro si osserva nelle economie avanzate  nell’ultimo mezzo secolo (anche su questo Philippon 2019).   Parliamo di brevetti, software, base dati, design, riconoscimento del marchio, formazione della manodopera specializzata.

Fenomeno che rende più difficile valutare quanto efficiente o inefficiente sia la concentrazione dell’offerta, con cui vengono premiate imprese più efficienti ma anche aumentano  le barriere all’entrata di nuovi concorrenti.

Il tema dell’intreccio fra politiche  antitrust sul mercato dei prodotti e politiche correttive delle disuguaglianze e delle iniquità sul mercato del lavoro  sembra tutto da  esplorare.

In assenza di un’efficace azione antitrust a difesa della concorrenza, la concentrazione dell’offerta e conseguente potere di mercato degli oligopolisti dominanti (incumbents) porta a salari più bassi, minori investimenti, minore produttività, minore crescita e maggiori disuguaglianze.

Questa analisi va  tuttavia ribilanciata alla luce della teoria schumpeteriana dell’innovazione e delle sue implicazioni per una teoria moderna della crescita (Kuznets), secondo cui la concentrazione dell’offerta consente di sfruttare  economie di scala statiche e dinamiche, che includono la formazione di massa critica nell’attività di ricerca e sviluppo. Una massa critica che, senza dimenticare i successi di grandi inventori individuali (da Johannes Gutenberg a Thomas Edison, Guglielmo Marconi, Albert B.Sabin e altri), è condizione necessaria per passare dall’invenzione  individuale alla diffusione dell’innovazione su scala industriale.

E parlando di mercato del lavoro non si dimentichi che la transizione da un assetto estremamente frammentato dell’offerta ad una maggiore concentrazione industriale favorisce la conquista di potere negoziale da  parte del sindacato per ottenere migliori condizioni e maggiori retribuzioni  dei lavoratori.

Più in generale va sottolineata la distinzione (ben nota nella letteratura sull’antitrust) tra posizione dominante delle grandi imprese  e  abuso della medesima posizione a scapito della sana concorrenza. 

Quanto all’Europa, in cui l’Autorità antitrust è strutturalmente  più autonoma dal potere  esecutivo rispetto al modello americano, non va certamente ostacolata la crescita di “campioni europei” in grado di reggere la concorrenza americana, e sempre più cinese e asiatica, sui mercati globali.

fabrizio.onida@unibocconi.it