Fabrizio Onida (Sole24Ore 23 luglio 2021)
Sono più di 250 miliardi di euro all’anno le risorse pubbliche che nel settennio 2021-2027 appena iniziato l’Europa dei 27 intende mettere a disposizione (come somma del NGEU e del bilancio settennale della UE) per rilanciare la crescita dopo lo shock del Covid. E’ una sfida senza precedenti per la regia della Commissione e ancor più per l’efficienza e la credibilità dei paesi membri. In questa luce si colloca il rinnovato appello della Commissione ad una “nuova politica industriale”, segnalando il definitivo (speriamo) tramonto di quella visione pseudo-liberale che diversi anni fa Romano Prodi riassumeva nella battuta “qui a Bruxelles la politica industriale è una parola oscena!”.
Il documento “Updating the 2020 new industrial strategy: building a stronger Single Market for Europe’s recovery” (5 maggio 2021) riprende, come da titolo, il precedente “A new industrial strategy for Europe” (10 marzo 2020)
A quasi un quarto di secolo di distanza dal “Rapporto Cecchini”, che nel 1998 disegnava il “costo della non-Europa”, prosegue il cammino verso il “mercato unico europeo” (Single Market): definizione che, per inciso, il neo-Commissario Mario Monti (1995-2005) da sempre preferisce a quella di ”Internal market”, troppo evocativa di una “Fortezza Europa” che si rinchiude in se stessa.
Un mercato unico europeo dominato da meccanismi decisionali inter-governativi, ben lontano dal modello federale del grande mercato americano, tuttavia fortemente ancorato al principio della concorrenza in difesa dei consumatori.
La necessità di una “nuova politica industriale” nasce dalla constatazione che le fondamentali regole antitrust contro i poteri monopolistici e i diritti dei consumatori possono garantire un “level-playing field” agli attori sul mercato, ma non bastano per realizzare l’Europa dei padri fondatori. Non bastano a far nascere e rafforzare imprese attrezzate per reggere la concorrenza esterna e la competizione tecnologica di colossi non europei nell’industria manifatturiera e nei servizi, particolarmente quando entrano in gioco sul mercato globale soggetti pesantemente sostenuti dallo Stato e sue articolazioni.
Chi ancora oggi diffida del termine “politica industriale”, citando casi clamorosi di “fallimento dei governi” (come il Concorde in Francia e gli esordi della TV a colori in Giappone) dimentica ciò che è avvenuto in un passato non lontano nel Giappone dei keiretsu e soprattutto trascura la cronaca e la storia dei primi anni 2000. Una storia disseminata di aiuto pubblico in varie forme (apporti di capitale, prestiti agevolati, garanzie bancarie, sconti fiscali ecc.) a soggetti imprenditoriali che rapidamente si trasformano da campioni nazionali a campioni globali, come avvenuto in Cina, Taiwan, Sud Korea, India, Brasile. Per non parlare degli USA e dell’agenda Biden, in un contesto ben diverso da quello di Galbraith e del suo “complesso militare industriale”.
Si punta ad un approccio flessibile di politica industriale, finalizzato a coltivare 14 “ecosistemi industriali” dall’agro-alimentare e il tessile ai mezzi di trasporto terrestri, ai settori manifatturieri ad alta intensità energetica, alla componentistica elettronica, all’aerospazio e Difesa, ai settori legati alla salute, ai servizi culturali e sociali, al turismo. Si mira a superare” nuove vulnerabilità”, “antiche dipendenze”, “disuguaglianze territoriali”. Una parola-chiave è la “dipendenza strategica” dell’Europa dall’importazione di prodotti e attrezzature che – come nel caso dei semiconduttori e dei magneti componenti cruciali dell’industria degli autoveicoli – vincolano la capacità di risposta delle imprese europee all’evoluzione dei mercati e delle tecnologie. Appositi documenti predisposti dagli uffici della Commissione, in collaborazione con esperti di settori e microsettori, forniscono diverse rassegne in profondità (“in-depth reviews) con cui le imprese già operanti e le “startuppers” sono chiamate a confrontarsi: fra quelle già circolate o prossime all’uscita troviamo batterie, principi attivi farmaceutici, idrogeno, semiconduttori, tecnologie edge e cloud.
Oltre alle azioni mirate per ridurre vulnerabilità e dipendenza negli ecosistemi industriali, il documento della Commissione sottolinea con forza la necessità di accrescere le capacità produttive promuovendo partnerships e alleanze internazionali, capaci di coinvolgere imprese di minori dimensioni a vocazione tecnologica. Non è certo un generico appello alla solidarietà e al “fare squadra”. Non è nemmeno un ossimoro, bensì – potremmo dire – l’altra faccia di una vera politica della concorrenza accennata all’inizio. Per essere competitivi occorre essere continuamente esposti al vento della concorrenza (domestica ma sempre più proveniente dalle importazioni), ma al tempo stesso bisogna coalizzarsi con altri soggetti indipendenti con cui si identificano complementarietà, affinità, volontà e capacità di cambiare.
La Commissione, che già 3 anni fa lanciò gli IPCEI ) (Important Projects of Common European Interest) attualmente agli esordi su tematiche come le batterie e la microelettronica, propone fin da ora esempi di partnerships che coinvolgono grandi e medi attori (5G, idrogeno, energia eolica, cybersecurity, edge and cloud per i dati industriali, lanciatori spaziali, aeronautica a emissioni zero, ). Alleanze industriali che intendono favorire la interoperabilità e promuovere la definizione di standard tecnici europei in asse con la ESO (European Standardisation Organization). Alleanze che devono entrare in gioco ricordando che le commesse pubbliche pesano mediamente il 14 per cento del Pil della UE. Le regole sugli aiuti di Stato devono garantire che i fondi pubblici non sostituiscano gli investimenti privati, anzi riescano a scatenarne di maggiori: come sta avvenendo col progetto GAIA-X che coinvolge già oggi quasi 300 soggetti nella UE-27 per far nascere un mercato digitale europeo 5G che permetta al vecchio continente di affrancarsi dalle piattaforme dei colossi americani e cinesi.
Qualche esponente del pensiero ultra-liberale ritiene che “basta il mercato” per realizzare questi grandi progetti di partnership europea, ma non è l’opinione dei diretti protagonisti che ogni giorno sperimentano la pressione della concorrenza americana e asiatica. Certo non si tratta solo di “politica industriale” in senso stretto, i governi sono chiamati a dedicare risorse pubbliche per rafforzare le infrastrutture (energia, digitale, telecomunicazioni ecc.), sostenere la ricerca di base e applicata, promuovere l’istruzione tecnica e professionale, agevolare la finanza per la crescita delle imprese.
Le conclusioni del documento del 5 maggio 2021 insistono su un contesto legislativo e amministrativo che spinga verso esperienze di “co-creazione, investimenti, partnership, cooperazione internazionale”.
fabrizio.onida@unibocconi.it