Fabrizio Onida (Sole24Ore, 23 gennaio 2021)
Superati gli scogli della crisi in corso, il governo ha poco più di tre mesi per predisporre e far approvare dal Parlamento il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) articolato per progetti specifici, modalità di realizzazione e tempistiche. L’entità delle risorse che l’Europa mette in campo fa tremare vene e polsi: per la sola Italia 210 miliardi (sui 750 totali) di cui 83 di sovvenzioni e 127 di prestiti rimborsabili in un orizzonte di molti anni. Senza contare altre decine di miliardi assegnati sui fondi nazionali nel Quadro pluriennale di Finanza Pubblica. Vengono indicate sei “Missioni”, largamente coincidenti con gli indirizzi espressi nei PNRR degli paesi europei: 1.Digitalizzazione-innovazione-competitività-cultura. 2.Rivoluzione verde e transizione ecologica. 3.Infrastrutture per la mobilità sostenibile. 4.Istruzione e ricerca. 5. Inclusione e coesione. 6.Salute.
Il CdM del 12 gennaio ha approvato una dettagliata proposta di interventi su ben 160 pagine, come base di discussione per il confronto col Parlamento, oltre che con la più ampia platea di regioni ed enti locali, parti sociali, terzo settore, reti di cittadinanza. Un velenoso commento del FAZ (Frankfurter Allgenmeine Zeitung) aveva insinuato che “Conte vuole distribuire i soldi di Bruxelles in base a calcoli politici e clientelari”. I sindacati hanno già denunciato il rischio che il PNRR venga confezionato nel chiuso delle stanze ministeriali, senza quell’attivo coinvolgimento delle parti sociali nelle grandi scelte pubbliche che dovrebbe costituire la cifra originaria del CNEL.
Una prima sfida è ben nota e tradizionalmente ardua per le nostre tradizioni di ‘governance’. Le nostre istituzioni governative sono troppo spesso prigioniere di leggi-decreti applicativi-regolamenti che alimentano autoreferenzialità dei diversi centri di potere ministeriale, anzi che volontà e capacità di cooperazione per assicurare scelte coerenti e continua verifica dei risultati in corso d’opera. Speriamo che in direzione contraria vadano a remare le sei task force annunciate a capo di ognuna delle sei “missioni” a loro volta articolate per “componenti funzionali”, fissando cronogramma, scadenze e procedure di auditing che riportino alla task force competente. Purtroppo, come richiamato anche da Giovanni Tria (Sole 24Ore del 16 gennaio), pur avendo nel nostro paese ancora oggi molte competenze di capitale umano, negli ultimi decenni sono stati smantellati o depotenziati luoghi di programmazione e progettazione, per cui bisogna rimpiangere gli assetti manageriali degli anni migliori di IRI e IMI nell’immediato dopoguerra.
Ma c’è un altro aspetto di cui si è parlato troppo poco. Il PNRR non deve limitarsi a prospettare il massiccio intervento di investimenti pubblici nelle direzioni delle “missioni”, ma dovrebbe disegnare un circuito virtuoso in cui tali investimenti pubblici mobiliteranno un multiplo elevato di investimenti privati capaci di contrastare gli effetti devastanti della pandemia sul circuito del reddito e della domanda. Il problema è come indurre le imprese private (grandi, medie, piccole) a indirizzare le proprie scelte verso le finalità disegnate dalle varie Missioni, senza ricorrere ad alcun meccanismo di pianificazione pubblica, ma facendo leva sul disegno degli incentivi fiscali e finanziari agli investimenti. Segnalo alcune aree su cui bisognerebbe lavorare.
Primo, superare il mito degli incentivi orizzontali o “neutrali”, mantenere il massimo grado di automatismo che riduce al minimo le procedure dei bandi ministeriali ma al tempo stesso introduce meccanismi premianti sotto forma di un super-incentivo (analogo al sistema previsto da Impresa 4.0 per super e iper-ammortamenti) alle imprese che accettano di connettersi ad altre imprese impegnate in programmi di ricerca e sviluppo e forme di collaborazione industriale nell’ambito delle citate “missioni”.
Secondo, lo stesso potrebbe valere per incentivi fiscali come ACE o simili meccanismi volti a favorire scelte aziendali di capitalizzazione, avendo l’obiettivo di accrescere il rapporto capitale proprio/debiti.
Infine, come suggerito da Innocenzo Cipolletta presidente di AIFI, contare sul crescente diffondersi di “fondi di fondi” di private equity e private debt per incoraggiare partecipazioni di minoranza capaci di indirizzare le molte risorse liquide disponibili sul mercato verso la capitalizzazione di aziende ad alto potenziale di crescita e di internazionalizzazione. In questa direzione vanno sfruttate iniziative come Patrimonio Rilancio della Cassa Depositi e Prestiti (rivolta a medie e grandi imprese con più di 50 milioni di fatturato) e Fondo Patrimonio di Invitalia (indirizzato a imprese con meno di 50 milioni). Simili “fondi d fondi” sono oggi particolarmente adatti per attrarre grandi e medi investitori esteri (non solo italiani) come fondi pensione-casse di previdenza-compagnie di assicurazione. In tal modo capitale pubblico nazionale e capitali privati nazionali ed esteri possono efficacemente concorrere a quella mobilitazione di investimenti che il PNNR dovrebbe stimolare. Inutile aggiungere che così facendo si può sperare che le (numerosissime ma di corto respiro) startup che nascono sul mercato possano incontrare la potenza di fuoco di quel venture capital che da sempre latita nel nostro quarto capitalismo.
fabrizio.onida@unibocconi.it