Gli incentivi fiscali li merita chi innova in maniera strategica

Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2020

Si moltiplicano gli appelli perché governo e opposizione definiscano  i progetti che l’Italia dovrà presentare per usufruire dei 208 miliardi (di cui prestiti 127)  assegnati  all’Italia nell’ambito del Next Generation EU (Recovery Fund). Fondi che dovranno essere impegnati entro il 2021-23. Si tratta di un’occasione straordinaria, per entità finanziaria e modalità di accesso. Accanto alle grandi linee di intervento (come infrastrutture fisiche e digitali, sanità, scuola e formazione, ricerca, giustizia) il governo non deve trascurare il ridisegno della politica industriale, intesa non come salvataggio di imprese in crisi (purché non candidate a prolungare una esistenza di “imprese zombie” sul mercato), ma come stimolo a quell’innovazione tecnologica e organizzativa senza cui l’Italia non riuscirà a recuperare un ritardo ormai ventennale nella crescita della produttività a confronto con i maggiori paesi sviluppati.

Una spiegazione, non unica ma importante, di questo ritardo è la quota ancora troppo elevata di micro e piccolissime imprese (meno di 20 addetti) che – pur in un panorama assai differenziato tra regioni, paesi e settori produttivi – denotano i difetti del cosiddetto “nanismo d’impresa”. Per memoria, in Italia    nel 2016 il valore aggiunto complessivo deriva per il 38% da imprese con meno di 20 addetti, contro il 23% in Germania, il 30% in Francia, il 32% in Spagna. Non è una fissazione miope dei cantori del grande capitalismo. Ne ha parlato di recente  anche Ignazio Visco nel suo intervento allo EuroScience  Open Forum 2020 (4 settembre), ricordando che la nostra inferiorità discende non tanto dalla composizione del “made in Italy” molto spostato verso settori tradizionali (persona, casa, meccanica), ma dal  peso  elevato delle micro e piccolissime imprese che mediamente investono meno in innovazione e faticano a diffondere pratiche manageriali di qualità tipiche dei  paesi meglio performanti. Infatti una comune simulazione statistica dice che, se il nostro sistema produttivo presentasse la stessa composizione per settori della Germania, la nostra produttività del lavoro migliorerebbe  solo del 3%  , mentre il guadagno sarebbe del 20% se avessimo la  stesse distribuzione di fasce dimensionali delle imprese tedesche.

Non solo: vi è una grande eterogeneità delle imprese anche all’interno delle fasce dimensionali minori. Nella sua Audizione alla V Commissione della Camera del 2 settembre, Roberto Monducci (direttore del Dipartimento Istat per la produzione statistica), si avvale di microdati tratti dall’ultimo Censimento permanente sulle imprese: un insieme di 215.000 imprese con  più di 10 addetti, che rappresentano il 55% del totale addetti e il 71% del valore aggiunto. Dopo la doppia crisi 2008 e 2013 le PMI più dinamiche hanno registrato incrementi di produttività addirittura maggiori rispetto alle grandi imprese meno dinamiche. Il “dinamismo” è qui misurato da una combinazione di indici di propensione a investire in tecnologia, digitalizzazione, formazione personale (soprattutto ICT), modernizzazione organizzativa, attenzione alla sostenibilità.       Ne deduce che le politiche di incentivi orizzontali (come Impresa 4.0) dovrebbero cercare di individuare, all’interno dei settori e delle diverse fasce dimensionali,  la  platea dei destinatari con “profili più competitivi e orientati alla crescita”. In tal modo si favorirebbe la transizione verso classi superiori di dinamismo, contribuendo ad accelerare la crescita della produttività.

Marco Fortis (Il Foglio del 7 ottobre) invita a considerare separatamente le micro e piccolissime imprese manifatturiere  on meno di 20 addetti, con produttività decisamente bassa, mentre la fascia intermedia  con 20-249 addetti mostra una produttività del lavoro perfino superiore a quella delle comparabili imprese tedesche. 

Questo dato rafforza le considerazioni di Monducci che, partendo dalla eterogeneità del tessuto industriale all’interno dei settori, dei territori e delle classi dimensionali, sollecita una politica industriale che affianchi agli incentivi fiscali automatici qualche filtro di “granularità”, per usare il gergo degli economisti. Si può ad esempio immaginare, all’interno di incentivi “orizzontali”, un premio addizionale per imprese disponibili a cooperare con proprie risorse alla costruzione di “ecosistemi innovativi” attorno alle grandi “missioni” indicate dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resiienza). Senza inseguire politiche “settoriali” facili prede di interessi delle categorie politicamente più forti, occorre promuovere la “visione che guarda al futuro” invocata da Carlo Bonomi nell’ assemblea  di Confindustria dello scorso 29 settembre,  come efficace antidoto al “nanismo”.

Ovviamente nessuno si illude che un ripensamento della politica industriale in questa direzione, già non semplice da identificare negli strumenti, nonché difficile da far accettare alle rappresentanze datoriali affezionate alla distribuzione di fondi a pioggia e timorose di qualsiasi filtro che odori di programmazione e intromissione ministeriale, possa stimolare in tempi brevi la desiderabile trasformazione strutturale virtuosa del nostro apparato produttivo. Ma vale la pena di tentare.

fabrizio.onida@unibocconi.it