Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2020
Giorno dopo giorno si moltiplicano gli scenari pessimisti sulla imminente recessione da pandemia in Europa e ancor più in Italia: un cosiddetto profilo a L con una violenta flessione del PIL nel primo anno senza precedenti nel dopoguerra, seguita da una prolungata stagnazione e disoccupazione dilagante. Fortunatamente, per esorcizzare simili scenari ì, governi nazionali e istituzioni internazionali come la BCE sono spinti a varare tempestivamente politiche keynesiane di sostegno alla domanda e alla produzione, facendo ricorso alla più ampia batteria di strumenti fiscali e monetari: casse integrazione guadagni, assegni di disoccupazione, sussidi temporanei alle imprese, massiccia immissione di liquidità e garanzie pubbliche sui prestiti bancari mirate a impedire il collasso di innumerevoli catene nazionali e internazionali di fornitura. Per finanziare questa accresciuta spesa pubblica, nella UE è opportunamente ripartito il dibattito su emissioni concordate di titoli a lunga e lunghissima scadenza a garanzia plurilaterale dei paesi membri (Prodi, Monti, Quadrio Curzio, Tabellini, Toniolo e altri), emissione finora impedita dal rifiuto di alcuni Stati membri di condividere il rischio di insolvenza e perfino di ridenominazione del debito (abbandono dell’euro) dei paesi più esposti.
Non perdiamo di vista però che massicci Interventi della BCE, ricorso a prestiti condizionali del MES, emissione di Eurobond e simili, mentre vengono incontro a importanti esigenze di liquidità, non attenuano i ricorrenti sospetti dei mercati che l’accresciuto fabbisogno di liquidità in soccorso del settore privato nasconda una vera e propria (sia pure eccezionale) crisi di insolvenza del debito sovrano. Da qui il rischio di ricorrenti pressioni al rialzo dello spread sui titoli pubblici, che aggravano le condizioni del debitore, possano tradursi in una vera “emergenza” di sostenibilità del debito pubblico dei paesi più fragili come l’Italia. Ma perché più fragili?
Il governo dovrebbe mandare segnali credibili ai mercati sulla sostenibilità del debito stesso. Guardiamo ai numeri. Con una ricchezza netta delle famiglie grande 8,4 volte il reddito disponibile (una ricchezza pro capite di 158.000 euro, superiore a quella della Germania: dati Bankitalia) gli italiani potrebbero ben assorbire l’introduzione di qualche forma di tassazione annuale della ricchezza (non solo immobiliare come IMU e cedolare sugli affitti). Parliamo di tassazione annuale delle rendite finanziarie in generale, probabilmente preferibile a ipotesi di pesante prelievo un tantum sullo stock di risparmio (governo Amato 1992), e anche di prestiti irredimibili a rendimento quasi zero da tempi di guerra. Tenuto conto che più di due terzi della ricchezza netta è concentrata nel quinto più ricco delle famiglie, e un altro 15 per cento della ricchezza appartiene al quintile subito inferiore (ancora dati BI), tale tassazione delle rendite finanziarie potrebbe essere disegnata rispettando il vincolo costituzionale della progressività. Anticipo almeno due obiezioni: 1) accrescere la pressione fiscale sui privati in una fase di recessione è una mossa autolesionista che aggrava la recessione stessa; 2) qualsiasi annuncio di imposta patrimoniale fa fuggire i capitali all’estero riducendo la base imponibile.
Alla prima obiezione risponderei che l’accresciuta tassazione patrimoniale, ben calibrata per pesare poco o nulla sui due quinti dei contribuenti che detengono tutti assieme meno dell’otto per cento della ricchezza privata, inciderebbe solo marginalmente sulla spesa delle famiglie. In più, una mossa che rimuovesse i dubbi sulla sostenibilità della finanza pubblica italiana, lasciando inalterata la pressione fiscale sui redditi da lavoro e allargando invece la base imponibile includendovi i patrimoni, potrebbe produrre aspettative stabilizzanti sul futuro dell’economia, e di riflesso minor pessimismo sulle prospettive occupazionali e reddituali dei contribuenti onesti.
Alla seconda obiezione, ricorderei intanto che a confronto con la maggioranza degli altri paesi europei l’Italia si segnala per un carico fiscale sbilanciato che penalizza i redditi da lavoro rispetto alle rendite, e inoltre che un’aliquota modesta sui patrimoni non dovrebbe spaventare. Colleghi assai più esperti di me potrebbero essere più precisi circa i mezzi di cui altri governi si sono crescentemente dotati per colpire forme di fuga dalle proprie responsabilità verso paradisi fiscali vicini e lontani.
fabrizio.onida@unibocconi.it