Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2020
Un recente rapporto del CEPS dal titolo accattivante (“Hidden Treasures. Mapping Europe’s sources of competitive advantage in doing business”), a cui ha contribuito anche l’italiano Andrea Renda con lunga esperienza negli USA e a Bruxelles, cerca di contrastare il diffuso europessimismo generato dalla deludente performance dell’Europa (confrontata con gli USA) in termini di produttività e crescita nell’ultimo quarto di secolo.
Innanzi tutto fa riflettere il dato (pag. 78) per cui la quasi totalità delle imprese statunitensi che fanno parte della classe avanzata Standard&Poor 500, se togliamo i giganti FAANG (Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google) nell’ultimo decennio non hanno registrato aumenti di produttività, a differenza dai principali gruppi medi e grandi a controllo europeo. Una proiezione del Conference Board sulla crescita della cosiddetta TFP (Produttività Totale dei Fattori), che statisticamente cerca di misurare la capacità dei paesi di accrescere efficienza e innovazione nell’utilizzo delle risorse primarie (capitale, lavoro, materie prime), segnala che l’Europa potrebbe recuperare nel 2026 i livelli di questo indice antecedenti alla crisi del 2007-08.
Inoltre nella classifica del “Global Innovation Index” (calcolata ogni anno da una joint venture fra Cornell University, INSEAD, Banca Mondiale e WIPO), tra i primi 10 paesi – accanto a USA, Singapore e Israele – troviamo nell’ordine Svizzera, Svezia, Olanda, Regno Unito, Finlandia, Danimarca e Germania (la Francia è al 16° posto, l’Italia al 30°). Non basta: nella classifica delle migliori città del mondo elaborata dalla spagnola IESE Business School (Cities in motion), sulla base di decine di indicatori socio-economici-tecnologici, più della metà delle 165 città di 80 paesi sono europee. Fra le città più innovative troviamo Londra, Parigi, Amsterdam, Copenhagen, Stoccolma, Berlino, Monaco, Milano, Barcellona (pag. 71).
Questi sono alcuni dati che mettono l’Europa in una luce favorevole. Secondo gli economisti del CEPS, questi “tesori nascosti” dell’Europa discendono in misura significativa dal prevalere in Europa, a confronto col capitalismo liberista americano, di una cultura del valore d’impresa nel capitalismo familiare-manageriale sensibile all’interesse collettivo della società (“stakeholder value” che include lavoratori, fornitori, clienti, beni pubblici), non solo a quello esclusivo degli azionisti e dei manager pro tempore da loro designati (“shareholder value”). Un capitalismo familiare-manageriale non condizionato dall’ottica del profitto nel breve periodo (“short termism”) e pertanto più attento alla sostenibilità ambientale nel medio-lungo periodo, alla qualità della vita e dei servizi, alle esigenze del territorio, più disponibile a forme di cooperazione tra imprese leader e imprese fornitrici, più aperto alle diversità culturali radicate nella società complessa ma solidale.
E’ forse questa una visione ingenuamente idealizzata di un’Europa che insegue tesori nascosti ma incapace di usarli nel nome di uno stato sociale moderno e dinamico? Gli stessi autori del rapporto CEPS non si nascondono i limiti di un capitalismo europeo che fatica a valorizzare i propri talenti (disoccupazione e sottoccupazione diffuse) e ad attrarre i migliori talenti dal resto del mondo. Un capitalismo in cui a) le piccole imprese hanno minor facilità di accesso a fonti di finanziamento degli investimenti, b) il mercato dei capitali è ancora sottosviluppato e con pochi “capitali pazienti” che guardano lontano, c) le commesse pubbliche favoriscono più il risparmio sui costi che il progresso tecnologico e l’affidabilità per gli utenti, favorendo magari le innovazioni incrementali ma non quelle più dirompenti da cui origina la distruzione creatrice schumpeteriana, d) istituzioni di ricerca e imprese sono ancora debolmente convinte dell’utilità di una reciproca fertilizzazione per realizzare obiettivi più ambiziosi di crescita.
Molta strada resta dunque da percorrere per compiacersi dei tesori nascosti. E ancora una volta serve richiamare l’importanza dei progetti di ricerca e sviluppo pre-competitivo di lungo respiro e comune interesse europeo (IPCEI), progetti che purtroppo faticano a decollare con Microelettronica (in cui la nostra italo-francese STMicroelectronics è per fortuna ben presente) e Batterie (ancora in gestazione). Progetti e sottoprogetti il cui disegno organizzativo dovrebbe includere (speranza illusoria?) procedure di verifica periodica dei risultati e possibile riallocazione dei fondi ad altri candidati promettenti, valutati da comitati indipendenti e autorevoli. Una logica di politica industriale selettiva che Krugman e Rodrik hanno definito di “pick the loser” a differenza del tradizionale (e pericoloso) “pick the winner”.
fabrizio.onida@unibocconi.it