Aperture sui dazi e capitalismo illiberale

Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2019

Nella cornice multilaterale del G20 di Osaka di fine giugno, la decisione rigorosamente unilaterale di Trump di sospendere l’imposizione di dazi addizionali su più di 300 miliardi di dollari di esportazioni cinesi ha fatto tirare un respiro di sollievo ai mercati. Contemporaneamente, l’intervento di Xi Jinping a Osaka del 28 giugno è stato tutto un inno alla cooperazione economica internazionale per “accrescere la produttività, dare una spinta agli scambi e rivitalizzare tutte le industrie (….) non restare prigionieri di interessi di breve periodo compiendo errori con irrevocabili conseguenze storiche”. L’enfasi del presidente cinese, che già a Davos nel 2018 si era presentato come leader di lunghe vedute, alfiere dell’apertura dei mercati come strategia “win-win”, non è pura retorica. Infatti sostiene iniziative concrete che favoriscono maggiori importazioni (non solo la soja statunitense che sta a cuore all’elettorato di Trump),  promuove sei nuove aree-pilota di libero scambio, promette un trattamento non discriminatorio verso gli investitori esteri e norme a difesa dei diritti di proprietà intellettuale, rivendica l’utilità di una WTO a presidio del multilateralismo nei negoziati commerciali.  

Questo clima di reciproche aperture commerciali non può certo nascondere le tensioni nella sfida tecnologica esplose nella vicenda Huawey del 5G, che ha visto ripetersi il copione trumpiano di iniziale attacco seguito da ammorbidimento e apertura di dialogo tra le parti. Mentre permane il divieto di ingresso di prodotti Huawey sul mercato americano, Trump ha rapidamente eliminato il divieto sulle forniture a Huawey di componenti e sistemi di software   da parte di 1200 imprese statunitensi e 68 affiliate estere che vendono in Cina prodotti con   un contenuto di valore USA superiore al 25 per cento. La posta in gioco è di grande portata, perché tocca il consolidato intreccio delle catene globali e regionali di fornitura che ruotano intorno agli scambi di beni e servizi digitali, cioè le grandi sfide del futuro che con l’AI (Intelligenza Artificiale) e con l’IOT (Internet delle cose) stanno rivoluzionando gli scenari in fatto di risparmio energetico, mobilità delle persone, cure sanitarie, istruzione, assetti urbani e altro ancora.  Come notava Giorgio Barba Navaretti su questo giornale il 28 giugno, si è allontanato (almeno per ora) il rischio di un “muro di Berlino elettronico”, ma ormai è alta  l’attenzione della politica internazionale e della diplomazia alla marcia travolgente del gigante cinese, con enormi  implicazioni per gli equilibri civili e militari del mondo.

In una curiosa sequenza temporale, le conclusioni di Osaka sono state accompagnate dall’eco della lunga intervista concessa da Putin alla vigilia del G20 ai giornalisti Lionel Barber e Henry Foy del Financial Times. Le tensioni commerciali USA-Cina e le sanzioni occidentali contro la Russia (che risalgono all’annessione della Crimea e all’appoggio al regime siriano di Bashar al-Assad) stanno di fatto incoraggiando un asse Mosca-Pechino che si contrappone al capitalismo liberale di tradizione anglosassone: un capitalismo dotato di poteri forti ma  che secondo Putin mostra una profonda debolezza  nei confronti del fondamentalismo islamico e del populismo dilagante nelle democrazie occidentali vecchie e nuove, dall’Europa all’America Latina. La contrapposizione fra capitalismo liberale e varie forme di populismo risale indietro nella storia, ma oggi si presta sempre meno a facili decodifiche e interpretazioni, proprio per l’emergere di giganti economici e politici protagonisti come Cina e Russia. Non ha tutti i torti Putin che, senza rimpiangere il comunismo del passato, segnala che dopo il crollo del muro di Berlino ”25 milioni di popolazione di etnia russa si sono trovati a vivere fuori della Federazione Russa: non è questa una immensa tragedia? Posti lavoro? Viaggi? E’ stato un vero disastro”. Così rimpiange la visione di Pietro il Grande e della sua corte,  e non muove un dito contro la cerchia degli oligarchi amici.

Da parte sua il “liberale” Xi Jingping  spinge verso la conclusione della RCEP asiatica (Regional Comprehensive Economic Partnership) che si allarga a Giappone e Sud Corea, ma resta assolutamente blindato sul futuro di HongKong (un paese, due sistemi) per non parlare della libertà di stampa e di opinione.

Un’autentica democrazia liberale sembra condannata a muoversi fra una Scilla delle dittature e una Cariddi dei populismi. La navigazione è turbolenta ma non abbiamo perso la capacità di orientarci.

fabrizio.onida@unibocconi.it