Approfondimento in “L’Italia nell’economia internazionale”, Rapporto ICE 2017-2018, pp. 88-93.
La Grande Recessione post 2008 ha visto l’emergere di varie forme di populismo anti-globalizzazione nello scenario politico di molti paesi europei e di recente nell’America di Trump. In pochi anni i programmi elettorali e le preferenze rivelate dei ceti popolari, fino a includere crescenti fasce dei ceti medi e ricchi, registrano una netta transizione da una benevola disattenzione verso l’impatto della globalizzazione sulla vita quotidiana a forme diffuse di paura, disagio, malcontento (i discontents del libro di Stiglitz del 2002), se non aperta ostilità verso la promozione del libero scambio di merci, servizi, capitali e manodopera. L’ultimo (nono) negoziato multilaterale in ambito GATT-WTO (prematuramente battezzato Doha Development Round) è ormai penosamente insabbiato. Al tempo stesso in Asia e America Latina avanzano – pur con fatica – vari progetti di Accordi di integrazione economico-commerciale a scala regionale che tendono ad allargare il terreno di gioco a più ambiziosi obiettivi di politica economica come rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, commesse pubbliche, sicurezza e diritti del lavoro, maggior libertà di movimento persone e servizi all’interno dell’area, standard tecnici, norme ambientali.
Proviamo allora a ragionare intorno a tre temi.
Primo, in che senso le turbolenze nell’economia globale dell’ultimo ventennio (tra cui l’avvento di Internet a scala globale, l’ingresso della Cina nella WTO e la grande Recessione post-2007, il rapido diffondersi dei populismi nello scenario politico dell’Occidente, incluse “democrazie illiberali” come Erdogan in Turchia e Orban in Ungheria) obbligano a rivedere l’ottimismo della teoria economica consolidata circa i benefici della globalizzazione ripartiti fra paesi a diverso livello di sviluppo, nonché all’interno dei paesi fra gruppi sociali vincenti e perdenti? Si può sostenere che la globalizzazione dei mercati in assenza di un “governo globale” si sia spinta troppo avanti e troppo in fretta (come suggerito da Dani Rodrik già nel lontano 1997), causando squilibri e tensioni sociali insostenibili che inevitabilmente alimentano una forte avversione ai processi di apertura e integrazione internazionale?
Secondo, posto che ogni Accordo di liberalizzazione degli scambi internazionali promuove una maggiore concorrenza tra le imprese ma inevitabilmente comporta una certa competizione fra la qualità delle istituzioni (politiche, economiche, sociali) dei diversi paesi, che cosa possiamo attenderci circa l’intensità della “corsa verso l’alto” nella qualità delle istituzioni nei paesi emergenti rispetto alla parallela “corsa verso il basso” nei paesi avanzati esposti alla maggiore pressione concorrenziale dei bassi costi del lavoro?
Terzo, gli Accordi commerciali su scala regionale, anzi che multilaterale, sono più esposti al rischio che gruppi di potere economico organizzati e concentrati riescano a far prevalere i propri interessi settoriali rispetto agli interessi più generali dei paesi coinvolti nel negoziato?
Perché dobbiamo temere un eccesso di globalizzazione non governata
La visione ottimistica del libero scambio come vantaggioso per tutti, tipica del pensiero dominante fra gli economisti, è stata messa in discussione non solo da occasionali esponenti della “radical economics” (come R. Gordon, R.Reich e altri), ma da non meno che un padre nobile delle teorie neoclassiche del commercio internazionale come Paul Samuelson (2004), con un articolo dal titolo provocatorio “Where Ricardo and Mill rebut and confirm arguments of mainstream economists supporting globalization”. L’articolo prende spunto dai timori suscitati negli USA dal rapidissimo avanzamento della Cina come competitore gigante sui mercati a causa dei bassi costi del lavoro, ma anche di massicci investimenti in tecnologia. Partendo da salari estremamente bassi anche se rapidamente crescenti, nello scenario di Samuelson la Cina cavalca un forte progresso tecnologico che permette di conquistare quote di mercato nei settori di storico vantaggio comparato degli USA. Nel frattempo i posti di lavoro perduti negli USA a seguito delle importazioni dalla Cina non vengono necessariamente rimpiazzati da nuovi posti di lavoro generati dallo sfruttamento dei residui vantaggi comparati degli USA. Come risultato, i salari reali cinesi aumentano riflettendo l’accresciuta produttività, mentre occupazione, salari reali e reddito pro capite americani possono subire una perdita “permanente”. L’importazione di manodopera a basso costo (es. dal Messico) e la delocalizzazione all’estero di imprese USA non più competitive in patria non possono che aggravare questo esito sconfortante per i fautori del libero scambio. Soltanto l’iniezione della Schumpeteriana “distruzione creatrice” nell’industria americana può invertire la tendenza, consentendo agli USA la riconquista del benessere nazionale senza cedere alla tentazione della guerra commerciale (protezionismo) che porta nel vicolo cieco del “tutti perdenti”.
Il tema del “China shock” è ovviamente al centro di numerosi lavori negli ultimi anni, come Autor-Dorn-Hanson (2016) i quali riconoscono che “labor market adjustment to trade shocks is stunningly slow” e quindi suggeriscono un approccio pragmatico (non ideologico) alle politiche di governo della globalizzazione.
E’ pur vero che il successo competitivo dei paesi emergenti scatena circuiti di crescita di salari e prezzi in parallelo con la crescita della produttività, riducendo il pericolo di spiazzamento permanente dei paesi avanzati. Restano tuttavia problemi che alimentano i timori della “iperglobalizzazione”: a) il tasso di cambio dei paesi emergenti può restare a lungo sottovalutato, infliggendo perdite di benessere ai paesi avanzati; b) i sistemi di “welfare” nei paesi avanzati, mirati ad attutire i costi sociali della transizione alla conquista di nuovi vantaggi comparati, incontrano pesanti vincoli di finanza pubblica; c) anche in presenza di mobilità di lavoro e capitali tra settori dello stesso paese, i salari non si eguaglieranno mai tra settori (come nel modello neoclassico più ingenuo e irrealistico), per cui la globalizzazione mal governata crea disuguaglianze interne socialmente insostenibili tra fattori produttivi vincenti e perdenti; d) le ansie da “iperglobalizzazione” sono aggravate dalla probabilità che la crescente penetrazione di Internet nei mestieri “offshorable” (es. software engineering, consulenze professionali, finanza, ricerca, management) spinga una quota rilevante di lavori qualificati e di imprenditori innovatori nei paesi avanzati (circa 20-30 percento secondo Blinder 2006) a emigrare verso altri paesi alla ricerca di migliori retribuzioni e condizioni di lavoro. Anche se voci autorevoli come Bryniolfsson e McAfee (2016) suggeriscono come la diffusione delle ICT generino effetti di “reshoring” in molte forme di servizi qualificati in cui si rivalutano i vantaggi da prossimità fisica al cliente.
Una conclusione largamente condivisa è dunque che la globalizzazione per sé contribuisce a ridurre le diseguaglianze fra paesi (basti pensare alle centinaia di milioni di popolazione cinese e indiana uscita dalla povertà assoluta nell’ultimo quarto di secolo), ma tendono a crescere le disuguaglianze interne ai paesi tra fasce di reddito e territori vincenti e perdenti, come appare evidente nella stessa esperienza di sviluppo della Cina. Emerge nel mondo una particolare concentrazione di ceti sociali perdenti nelle zone interne e/o più lontane dalle aree metropolitane sviluppate (Hakobyyan-McLaren 2016), come suggerito anche da recenti esiti elettorali, dal Regno Unito (Brexit) e altri paesi europei all’America di Trump. Crescenti diseguaglianze interne ai paesi sono una sorgente potente delle reazioni populiste nel mondo, sia pure con frustrazioni e timori variamente declinati tra paesi. Ad esempio, Rodrik (2017) suggerisce che derive populiste prevalentemente di destra in Europa e negli USA, riflettono soprattutto (in Europa) intolleranze anti-immigrazione e timori di un fragile Stato del benessere o (negli USA) paure legate a scenari di commercio estero come bilancia commerciale in disavanzo-delocalizzazione-de-industrializzazione, mentre in America Latina esprimono più avversione al predominio delle imprese multinazionali e alle ricette liberiste del Washington Consensus. Quale che sia il merito di queste sommarie interpretazioni dei comportamenti elettorali nei diversi paesi (che chiamano in causa rigorose analisi da parte di storici, giuristi e scienziati della politica), un governo lungimirante non può affidarsi a nessuna “mano invisibile” per realizzare un processo sostenibile di apertura internazionale del paese. Deve invece muoversi sul sentiero stretto di intelligenti ed efficaci politiche interne di sviluppo che portano a redistribuire i benefici della globalizzazione. Ne sono esempi politiche industriali attive per la diffusione dell’innovazione, investimenti pubblici in infrastrutture che facilitino la mobilità geografica dei lavoratori, in formazione professionale permanente, in efficaci “agenzie per il reimpiego”, in promozione di imprenditorialità giovanile, e così via.
Corsa verso l’alto o verso il basso?
Promuovendo la libera circolazione di merci-servizi-capitali-persone in un “gioco cooperativo” fra Stati sovrani, la globalizzazione dovrebbe indurre una certa convergenza tra istituzioni, cultura e preferenze dei consumatori nei paesi, anche se differenze pur profonde fra gli elementi costitutivi delle identità nazionali possono essere viste come ricchezza della storia e stimolo ad una sana competizione. L’integrazione economico-commerciale dei mercati incoraggia una certa convergenza verso istituzioni nazionali e norme sociali che presidiano i mercati. Accordi commerciali di portata geografica limitata, come i RTAs-Regional Trade Agreements (es. UE, NAFTA, ASEAN) o Accordi bilaterali tra un blocco già esistente e un singolo paese (es. USA e UE con Sud Corea, UE-Canada) tendono a coprire campi che variamente oltrepassano la pura liberalizzazione commerciale, come diritti di proprietà intellettuale, standard di lavoro, standard tecnici dei prodotti, appalti pubblici, regole sugli investimenti cross-border (vedi paragrafo successivo).
Tale parziale convergenza di regole “beyond the borders” sarà presumibilmente in direzione di una migliore “qualità delle istituzioni” (North 1990) nei paesi che partono da livelli inferiori di sviluppo civile e di democrazia politica, Ma in quale misura potrà al tempo stesso indurre un peggioramento della medesima qualità nei paesi storicamente avanzati, tenuto anche conto degli effetti sul loro tessuto sociale derivanti dai flussi migratori provenienti dai paesi più poveri?
Il tema è naturalmente controverso e aperto alle più diverse verifiche storico-empiriche circa il prevalere di auspicabili “corse verso l’alto” nei paesi meno avanzati rispetto ad assai meno desiderabili “corse verso il basso” nei paesi avanzati.
In estrema sintesi, vi sono almeno tre elementi a supporto della “corsa verso l’alto”. Primo, la citata massiccia fuoruscita dalla povertà assoluta di ampie fasce di popolazione, soprattutto asiatica, ma anche di paesi latino-americani e africani come Brasile, Cile, Uganda, Etiopia: fuoruscita che si accompagna a qualche pur timido segnale di miglioramento degli standard di base in materia di lavoro, sicurezza e ambiente.
Secondo, l’afflusso di investimenti diretti esteri che accompagna l’apertura dei mercati emergenti comporta di norma una certa diffusione di conoscenze tecnologiche e di migliori livelli di istruzione, elementi importanti del progresso sociale. Come documentato in alcuni rapporti della Banca Mondiale, limitati effetti positivi di questo tipo emergono perfino nel caso di investimenti tradizionalmente considerati di tipo coloniale (estrazione mineraria, piantagioni ecc.).
Terzo, il passaggio da un’economia di sussistenza a produzioni orientate all’esportazione (agricoltura, artigianato, manufatti semplici, turismo ecc.) crea le premesse per un mercato del lavoro meno basato sullo sfruttamento coloniale e gradualmente più aperto a modelli di sviluppo moderno inclusivo dei bisogni espressi dai diversi ceti sociali e più permeabile al riconoscimento dei fondamentali diritti dei lavoratori.
Purtroppo esistono anche rischi di “corsa verso il basso” nei paesi avanzati. Nei paesi meno dotati di istituzioni di buona qualità la concorrenza delle importazioni dai paesi a basso costo del lavoro genera fenomeni di disoccupazione e/o “working poor” e alimenta reazioni al “social dumping”. L’immigrazione non guidata aggrava i problemi di tenuta del tessuto sociale.
Inoltre, la crisi post-2007 ha molto indebolito la capacità dei governi di gestire ammortizzatori sociali efficienti per contrastare fenomeni di disoccupazione e disgregazione sociale.
In quale misura l’integrazione economico-commerciale fra paesi produce effetti di convergenza negli indicatori di sviluppo civile e di cultura etico-politica dei cittadini tra paesi e all’interno dei paesi? La storia recente e l’evidenza statistica costruita sui dati di “World value surveys” non portano a conclusioni univoche. Ad esempio, dagli anni ottanta in poi il progresso di integrazione economica europea non si è accompagnato ad una riduzione della “distanza culturale” fra gli stati membri vecchi e nuovi su temi come la qualità percepita delle istituzioni di governo e del sistema legale, così come su sentimenti popolari dominanti in fatto di eguaglianze di genere, moralità sessuale, religiosità (Alesina-Tabellini-Tiberi 2017). Pur con la dovuta cautela nell’interpretare queste risultanze da dati su sondaggi di opinione dei cittadini, i segnali recenti degli esiti elettorali in diversi paesi europei rivelano la persistenza di forti elementi di identità nazionale.
Multilateralismo vs Preferential Trade Agreements (PTAs)
La WTO ha contato nel mondo 524 Accordi regionali (RTAs) o preferenziali (PTAs) di commercio negli ultimi 70 anni (UE e NAFTA i più noti), di cui più di 280 sono in vigore oggi, con una accelerazione negli ultimi due decenni (vedi Approfondimento di Michele Ruta). Restringendosi il perimetro dei paesi membri partecipanti all’accordo, se da un lato vi sono minori rischi che l’unanimità sia compromessa da potenziali ostruzionismi di membri periferici dell’accordo, dall’altro lato aumentano i poteri di influenza da parte di lobbies settoriali ben organizzate sugli esiti del negoziato.
La difesa degli interessi consolidati di categoria viene normalmente associata ad atteggiamenti protezionistici che frenano i propositi governativi di liberalizzazione degli scambi. Esistono tuttavia casi di lobbies che premono per una maggior apertura del paese, come avviene quando nel settore produttivo nazionale cresce il peso delle imprese fortemente esportatrici e dei gruppi multinazionali collegati a catene globali del valore: soggetti che – in linea di massima – per il loro stesso assetto organizzativo di interdipendenza fra localizzazioni produttive in diversi paesi sono tendenzialmente interessati più ad una fondamentale libertà di circolazione dei prodotti finiti e intermedi che alla rigida difesa dei confini nazionali. Ciò si applica a larga parte dei settori ad alta intensità tecnologica ed elevata differenziazione dei prodotti, come elettronica, computer, elettromeccanica, meccanica di precisione, chimica, farmaceutica.
Ovviamente esistono molte varianti rispetto a tale generalizzazione delle preferenze espresse dai diversi settori nella fase negoziale. Così come nello scenario delle posizioni negoziali dei diversi paesi, quanto a difesa dei regimi brevettuali, si segnalano casi come la Svezia (Ronnbäck 2015). in cui il paese ritiene che una rigida difesa dei diritti di proprietà intellettuale possa essere nociva rispetto ad una sana concorrenza tra imprese innovative. Su questo tema vi sono naturalmente posizioni assai diverse quando entrano in gioco i paesi emergenti (es. India, Brasile, per non parlare della Cina) con strategie di sviluppo nazionale mirate al rapido inseguimento delle frontiere tecnologiche, nonché alla diffusione presso la popolazione più povera di farmaci salva-vita a prezzi sopportabili.
Ovviamente una certa convergenza delle istituzioni che regolano il mercato sarà tanto più possibile quanto più circoscritto o “locale” è il perimetro geopolitico dell’accordo preferenziale che gli Stati membri sottoscrivono: infatti si restringono progressivamente i margini di sovranità nazionale a favore di regole di sovranità condivise quando si passa dalle forme più deboli come le Zone di Libero Scambio (abbattimento di dazi e barriere commerciali tra i paesi membri, senza il vincolo di barriere esterne comuni) all’Unione Doganale (che comporta barriere tariffarie e non tariffarie esterne comuni ai paesi membri), fino all’Unione economica (che aggiunge diverse politiche economiche volte a rimuovere all’interno molte barriere non tariffarie promuovendo un vero “Single market”: libera circolazione dei servizi, convergenza di standard tecnici, diritti di proprietà intellettuale ecc.), all’Unione Economica e Monetaria (con unica Banca centrale e un qualche bilancio pubblico comune).
Oltre l’aspetto delle lobbies, resta sempre aperto il quesito se questi PTAs fungono più da ostacolo (stumbling blocs) o da spinta (building blocs) verso accordi multilaterali nello spirito della WTO. Il citato Approfondimento di M.Ruta sottolinea il secondo scenario favorevole nei casi di accordi forti (deep PTAs) i quali, a differenza degli accordi più deboli (shallow PTAs) avrebbero una maggiore probabilità di generare effetti diffusivi (spillover) verso paesi non membri. E’ comunque significativo che Richard Baldwin – uno degli economisti più attento al tema e inizialmente tra i commentatori critici del pericolo di ridurre gli scambi multilaterali a un insieme di pasticciate “ciotole di spaghetti”(spaghetti bowls) – prende atto dell’ormai prolungata incapacità della WTO di superare l’attuale stato di paralisi, augurandosi che il proliferare di PTAs possa in realtà promuovere processi di liberalizzazione di scambi multilaterali attraverso effetti di imitazione o “effetti domino” (Baldwin 2016, p.114). Questo scenario potrebbe diventare meno irrealistico quando nei prossimi mesi venisse auspicabilmente superata la confusa e contraddittoria avversione di Trump al rilancio dei negoziati transatlantici (TTIP) e transasiatici (TPP).
Concludendo, resta di grande attualità il richiamo realistico autocritico di Krugman (1987): “Free trade is not passé, but it is an idea that has irretrievably lost its innocence (…) Its status has changed from optimum to reasonable rule of thumb (…) it can never again be asserted as the policy that economic theory tells us is always right”.
Riferimenti bibliografici
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