Mulino, 3, 2018
Non c’è dubbio che, dopo il fallimento del programma “Industria 2015” (Prodi-Bersani 2006), il recente lancio di Industria 4.0 – da poco ribattezzato “Impresa 4.0” – rappresenti una svolta significativa nel disegno della politica di sostegno alla crescita e all’innovazione dell’industria manifatturiera italiana. Un’industria manifatturiera che, al di là di qualche occasionale retorica, rappresenta ancora la spina dorsale di un sistema produttivo con il suo crescente intreccio di attività terziarie (ricerca e sviluppo, progettazione, digitalizzazione e interconnessione nei processi e nei prodotti, logistica, distribuzione e assistenza post-vendita). Attività che incrociano competenze tipicamente manifatturiere alimentando la dinamica della produttività e della competitività internazionale del nostro sistema produttivo.[1]
A partire dalla Legge di bilancio 2017, l’impegno finanziario del governo a sostegno degli investimenti materiali e immateriali ha assunto un profilo pluriennale, coprendo una ampia gamma di incentivi i cui capitoli più consistenti si ritrovano negli sgravi fiscali sulla domanda di impianti e macchinari (super-iper-ammortamento) e sulle spese in ricerca e sviluppo. A questi incentivi fiscali automatici si sommano diversi interventi: finanziamento agevolato all’acquisto di macchinari (nuova Sabatini), fondo di garanzia pubblica sui crediti bancari alle PMI, piano straordinario di promozione del Made in Italy, crediti d’imposta per la formazione 4.0 e altri ancora.
Facendo leva su incentivi automatici o quasi, si vuole evitare il rischio di bandi ministeriali, strumento che l’esperienza anche recente ha confermato come inefficiente e poco efficace, a causa dei quasi inevitabili ritardi cronici di implementazione dovuti a complessità delle procedure (partorite dalla fantasia dei funzionari, avvocati di Stato e consulenti giuridici ministeriali), lentezza ed eccessivo numero di passaggi burocratici, fino agli inevitabili ricorsi amministrativi a TAR e Consiglio di Stato, senza parlare della Corte dei Conti.
Non sorprende che le imprese e le loro rappresentanze collettive abbiano accolto con grande favore il nuovo corso del ministro Calenda, speriamo irreversibile al di là della cronica instabilità dei governi. C’è dunque da compiacersi per questa coraggiosa svolta che ha riportato il tema della politica industriale e dell’innovazione tecnologica al centro dell’attenzione politica del paese. Naturalmente, essendo agli inizi di una nuova fase della politica industriale ci sono ancora pochi elementi consistenti di esperienza fattuale per poter trarre dei giudizi ponderati sulla sua efficacia, al di là dello scontato benvenuto rilancio di un ciclo di investimenti dopo la loro paurosa caduta nel 2008-2015.
Resto comunque convinto che il quadro dell’azione governativa avrebbe tutto da guadagnare se allargasse lo sguardo e si confrontasse realisticamente, senza velleità ma anche senza pregiudizi, con l’impostazione ormai ampiamente diffusa della nuova politica industriale nei maggiori paesi europei intorno a noi.
Mi riferisco al fatto che l’offerta degli incentivi fiscali automatici “orizzontali”, tipicamente crediti d’imposta alle spese private in R&S e incentivi fiscali agli investimenti, assai efficaci nel breve termine, in quei paesi si inserisce in un quadro a medio-lungo termine che mira a stimolare varie forme di networking tra imprese, collaborazione pubblico-privato (Public Private Partnership) attorno a grandi programmi di sviluppo sociale e tecnologico. Programmi che agiscono da potenti drivers dello sviluppo economico moderno e inclusivo.
Parliamo di una politica industriale insieme “mission oriented” e “diffusion oriented”, per usare un classificazione ben nota nella letteratura di Economia dell’innovazione, in cui si mobilitano risorse equamente ripartite fra incentivo pubblico e finanziamenti a carico delle singole imprese e dei centri di ricerca partecipanti (a partire dalle università).
Uno sguardo ai programmi di politica industriale dei diversi paesi, che riprendono numerosi documenti ufficiali della Commissione Europea, rivela l’accento sugli stessi grandi obiettivi (drivers) tecno-economici e sulle stesse ricorrenti priorità di sviluppo della società: efficienza energetica, salvaguardia ambientale, nuova manifattura additiva e interconnessa (con largo uso di Internet delle cose, realtà aumentata, Intelligenza artificiale, robotistica e machine learning), reti intelligenti di trasporti e comunicazione nelle città e fra i territori (mobilità sostenibile, smart cities, smart grids), nuovi materiali per usi domestici e industriali, bio e nanomedicina curativa e preventiva, difesa, sicurezza e così via. [2] Non sono questi stessi obiettivi, con varianti che tengano conto delle nostre specifiche vocazioni industriali, verso cui la politica industriale italiana dovrebbe cercare di indirizzare gli impegni di ricerca e innovazione del nostro apparatp produttivo? Si dovrebbe perciò parlare di “forzatura dirigistica”?
In Germania una politica industriale insieme “diffusion oriented” e “mission oriented” mette proprio la ricerca pe-competitiva al centro dei 10 “Future projects” promossi dal Ministero dell’Istruzione e della Ricerca, dall’Agenzia governativa GTAI e dalla Industry-Science Research Alliance. Tra questi il progetto Industrie 4.0 che coltiva in particolare le opportunità della nuova industria manifatturiera (Smart digital manufacturing for the future). Lo schema amministrativo è quello da tempo sperimentato con successo dalla Fraunhofer Gesellschaft: un terzo a testa dei costi ripartiti fra governo federale o regionale, Università e settore privato.
In Francia, a partire dal Rapporto Gallois (2012), il CNI (Conseil National de l’Industrie) promuove 9 programmi (Solutions Industrielles”) entro cui si realizza una cooperazione pubblico-privata di circa 2000 imprese con l’aiuto di quasi 300 esperti. I grandi programmi nazionali si articolano in programmi di filiere e settori specializzati sviluppati dai 20 Istituti Carnot e da più di 70 “poli di competitività” territoriali.
Nel Regno Unito, fra i primi Catapult Centres – il cui numero dovrebbe crescere fino a 25-30 entro il 2030 – sono stati avviati alcuni programmi strettamente legati a competenze tecnico-scientifiche particolarmente coltivate da Università britanniche di eccellenza, tra cui Manifattura additiva, Satelliti e aerospazio, Energie alternative offshore, Biomedicina cellulare.
Da tempo anche negli USA, dopo l’esperienza positiva di Sematech nella microelettronica, fioriscono esperienze di consorzi di ricerca pre-competitiva con partecipazione di denaro pubblico. [3]
Attenzione, evitiamo la confusione spesso ricorrente nel linguaggio dei politici: questi programmi non sono certo “piani di settore” di infausta memoria, ma mirano a mobilitare il settore privato con incentivi pubblici che riducono costi e rischi della ricerca di base (di cui le imprese innovative necessitano come il pane). Puntano a far nascere progetti cooperativi e incubatori di startups e piccole imprese innovative dove ricercatori e professionisti esperti si confrontano da vicino con imprenditori e manager su attività di ricerca di mercato, esplorazione tecnologica, produzione di prototipi, sperimentazione e test, analisi della concorrenza, produzione e fruizione di brevetti. Con preziosi travasi di informazioni e conoscenze tra i partecipanti.
Non parliamo dunque della politica industriale tradizionale, che tipicamente cerca di gestire le crisi aziendali per la salvaguardia dell’occupazione e di guidare processi più o meno ambiziosi di privatizzazioni, occasionalmente offrendo qualche protezione dalle importazioni,. Tanto meno parliamo di politiche dirigistiche di stampo colbertistico, ispirate alla logica del “picking the winner” che può solo forse trovare qualche giustificazione in particolari periodi di ricostruzione del paese dopo fasi di distruzione bellica, ma presta il fianco a pericolose commistioni di interesse pubblico e privato e a drammatici errori di selezione. Sarà il mercato a selezionare vincenti e perdenti. Purtroppo la storia industriale dell’Italia nel dopoguerra è farcita di perverse intromissioni di potere politico-partitico nazionale e locale nella governance delle grandi e medie imprese del settore privato, incluse le banche, come raccontano impietose cronache di giornalismo investigativo a partire dal ponderoso volume “Razza padrona” di Scalfari-Turani del 1974.
Parliamo invece di una forte spinta pubblica perché le imprese si coinvolgano sempre più in progetti di lungo respiro e in assetti di networking tecnologico. Un paese industrialmente avanzato come il nostro dovrebbe provare a ridisegnare i compiti dell’intervento pubblico rivolto non certo a “programmare il futuro”, bensì a stimolare-accelerare-coinvolgere il settore privato nella continua conquista di vantaggi competitivi del paese, non solo nella difesa dei vantaggi ereditati dalla storia. E’ una cornice concettuale largamente dovuta ai contributi di economisti di vari paesi come Dani Rodrik, Richard Hausmann, Philippe Aghion, Joseph Stiglitz, Ha-Joon Chang, Robert H. Wade, Mariana Mazzucato e pochi altri: contributi purtroppo trascurati se non esplicitamente disprezzati dagli economisti più ortodossamente neoclassici-liberisti.
Come testimoniano molte esperienze consolidate all’estero, in misura limitata anche in alcuni distretti tecnologici italiani, la cosiddetta ricerca pre-competitiva stimola la circolazione delle informazioni tra imprese collocate in diversi segmenti del mercato, abbassa i costi di accesso alla “ricerca di base” che in qualche modo deve ispirare i progetti innovativi anche delle aziende di minore dimensione, facilita il trasferimento delle conoscenze da Università e centri di ricerca scientifica alle imprese, promuove la condivisione dei costi di progettazione prototipazione e testing, incoraggia la ricerca di standard tecnici condivisi, facilita perfino scambi di best practices manageriali e di esperienze di problem solving. In sintesi, la ricerca pre-competitiva promuove lo sviluppo di veri e propri “ecosistemi innovativi”, che sotto molti profili è il nuovo nome degli antichi distretti industriali. In molti casi, a giudizio di molti managers di imprese multinazionali presenti in Italia, un impegno governativo in questa direzione stimolerebbe le case madri estere a riconsiderare con attenzione il vantaggio di localizzare in Italia attività di ricerca e sviluppo.
L’Italia deve accogliere con decisione la grande sfida del trasferimento tecnologico dalla scienza all’innovazione tecnologica. La sfida per una vera “valorizzazione delle conoscenze”, per usare un’espressione cara all’ex-ministro ed ex- presidente del CNR Luigi Nicolais, al suo predecessore compianto ministro Antonio Ruberti e alla mente geniale dell’allora presidente dell’Enea Umberto Colombo. Alla presenza di notevoli eccellenze scientifiche in Italia, come attestano vari indicatori OCSE sulle graduatorie internazionali di pubblicazioni e citazioni, si accompagnano rapporti relativamente deboli fra le istituzioni di ricerca e il mondo produttivo.[4] Migliaia di brevetti depositati in Italia e in Europa giacciono totalmente inutilizzati, testimoniando fantasia inventiva fervida ma disconnessa dai programmi di sviluppo delle imprese che stanno sul mercato. Esperienze di efficaci “liaison offices” e di incubatori con Università e imprese, sul modello americano e tedesco, in Italia sono in crescita – come presso i Politecnici di Milano e Torino, la Scuola S.Anna di Pisa, Padova, le Università emiliane, Napoli, Bari – ma sono ancora troppo poco sviluppate sui territori. Sono di ostacolo: a) la tradizionale cultura accademica riluttante a “sporcarsi le mani” con la soluzione dei problemi delle aziende; b) la diabolica propensione del legislatore e della burocrazia ministeriale regolatoria a imporre vincoli che (in nome di un formale garantismo e della astratta neutralità dello Stato regolatore) impediscono la necessaria flessibilità nello stipulare commesse e contratti cooperativi tra Università e imprese; c) il diffuso convincimento di troppe micro e piccole imprese che la ricerca sia un “lusso” rispetto ai propri obiettivi di conquistare e conservare la propria nicchia di mercato. Non riusciamo ancora a inventare in Italia la figura del “technology transfer manager”, ruolo collaudato nel mondo anglosassone e tedesco.
Verso il superamento di questo reciproco scarso incontro fra ricerca e produzione dovrebbe operare lo schema Calenda basato sull’attivazione di numerosi “Digital Innovation Hubs” appoggiati presso le rappresentanze confindustriali territoriali, chiamati a indirizzare le imprese del territorio verso un numero selezionato di centri accademici (“Competence Centres”) capaci di aiutare le imprese stesse a rivedere il proprio portafoglio prodotti e i propri processi in chiave di innovazione competitiva. Purtroppo l’esiguità delle risorse per attrarre capitale umano qualificato e la tentazione di disperderle tramite la consueta burocrazia dei bandi ministeriali per i “Competence Centres” rischiano di compromettere il pur nobile proposito.
Il tema della ricerca pre-competitiva in Italia – e più in generale della “open innovation” che induce la singola impresa ad aprirsi verso l’esterno uscendo da miopi campanilismi e presunzioni di autosufficienza – tende ancora oggi ad essere ignorato o comunque sottovalutato, per diversi motivi tra cui principalmente una cultura politica autoreferenziale e una cultura imprenditoriale ancora molto dominata dal capitalismo familiare poco orientato a diventare capitalismo familiare-manageriale. Anche (ma non solo) a causa della quota straripante di imprese con meno di 50 addetti (micro e piccole imprese), assai desiderose di beneficiare di forme diverse di sussidio pubblico a investimenti e occupazione, ma non altrettanto interessate a proposte di “contaminazione” col mondo della ricerca per allargare il proprio orizzonte di strategia competitiva.
Calare questi schemi nel contesto imprenditoriale e istituzionale italiano non è certo impresa da poco, anche se già esistono esperienze interessanti e collaudate come presso i Politecnici di Milano e Torino, le Università emiliane in particolare con la “Motor Valley”, il Sant’Anna di Pisa, l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova e il suo prossimo ramo all’interno dello Human Technopole di Milano, il Kilometro Rosso di Dalmine (Bergamo), la Federico II di Napoli, il polo della meccatronica barese. Particolarmente significativa ritengo l’esperienza ormai 25ennale del Cefriel presso il Politecnico di Milano, che con 130 ricercatori e decine di progetti a contratto offre alle imprese un “digital innovation and design shop”.
A questi modelli dovrebbero guardare con attenzione gli 8-12 “Clusters tecnologici nazionali” lanciati dal Miur nel 2012 e affidati a specifici Accordi di Programma con le Regioni, così come i 22 poli tecnologici seguiti dal “Monitor dei distretti e dei Poli tecnologici” di Intesa San Paolo.
Tutti questi importanti casi di partnership pubblico-privato – con gradazioni molto diverse da caso a caso fra iniziativa dal basso del tessuto industriale e sostegno pubblico che coinvolge Università e centri non accademici di ricerca – potrebbero generare una maggiore e benefica massa critica di ricerca e innovazione se da parte del governo e delle organizzazioni imprenditoriali ci fosse meno reticenza a immaginare anche in Italia una intelligente regia di alcuni selezionati grandi programmi di sviluppo tecnologico (come quelli coltivati dai nostri paesi vicini), verso cui catalizzare tante iniziative disperse. Con uno sforzo di pragmatismo e di snellezza burocratica, chiamando a raccolta un gruppo selezionato di accademici, manager e consulenti anche non italiani, si potrebbero superare le storiche obiezioni (fatte proprie dal ministro Calenda) che così facendo si riattizzerebbero mai sopiti sogni dello “Stato programmatore” e tentazioni statalistiche che giovano alla peggiore burocrazia soffocando la libera iniziativa. I governi nati dopo il 4 marzo 2018 saranno sensibili a questa esigenza di modernizzazione del paese?
[1] Il “Rapporto Istat sulle competitività dei settori produttivi” (febbraio 2015) insiste sulla crescente interconnessione fra attività manifatturiere e servizi come motore di produttività e competitività. In particolare, oltre i fondamentali servizi di rete (trasporti, logistica, telecomunicazioni) si parla dei KIBS (Knowledge-Intensive Business Services) che includono servizi professionali come consulenza informatica-gestionale-fiscale-legale-contabile, servizi di ricerca, pubblicità, ricerche di mercato. Lo stesso Rapporto annuale Istat (2018) registra segnali di ripresa congiunturale anche nel settore dei servizi, ma permangono ritardi strutturali nei comparti a maggior potenziale di digitalizzazione.
[2] Per una esposizione più dettagliata mi permetto di rinviare a Onida F (2017)., L’industria intelligente. Per una politica di specializzazione efficace, Università Bocconi Editore, Milano, cap. 4.
[3] Un caso relativamente poco noto: le Diagnostic Companies e LabCorp nel farmaceutico, che interconnettono imprese farmaceutiche, classe medica, imprese assicurative e agenzie governative.
[4] Ci sarebbe molto da dire sui limiti del CNR – con i suoi 7 Dipartimenti, 106 Istituti di ricerca e 6000 ricercatori – come istituzione che dovrebbe riuscire non solo a coltivare la ricerca scientifico-accademica ma anche ad alimentare un continuo rapporto cooperativo con le imprese proprio in chiave di trasferimento tecnologico. Discorso simile meriterebbe una analoga funzione dell’ENEA.