IlSole24Ore 23.01.2018
Non credo abbia precedenti l’iniziativa del ministro per lo sviluppo economico Calenda di firmare una ambiziosa proposta (IlSole24Ore del 12 gennaio) di Programma per la crescita industriale assieme al segretario generale di un importante sindacato dei lavoratori (Bentivogli). Felice segno dei tempi, fuori dalla retorica, che merita consensi ma anche un paio di suggerimenti.
Pienamente condivisibile è l’accento sull’urgenza di guardare in faccia la quarta rivoluzione industriale in corso (digitalizzazione dei processi e dei prodotti) che obbliga a ripensare a fondo le strategie competitive delle imprese, l’organizzazione del lavoro prima e dopo la fabbrica, il ruolo delle politiche pubbliche, incluso il sistema formativo del nostro prezioso capitale umano. Siamo circondati da scenari come quelli di McKinsey Global Institute secondo cui, sulla base di indagini su 46 paesi che occupano l’80 per cento della forza lavoro globale, l’automazione totale o parziale sta andando a toccare quasi il 20 per cento di tutte le attività lavorative (industria e servizi), promuovendo incrementi di produttività tra 0.8 e 1.4 per cento all’anno. E mentre in Italia si vara il programma Impresa 4.0 (nuovo nome di Industria 4.0) la MIT Technology Review (diretta dall’Ing. Alessandro Ovi) lancia un dibattito su Industria 5.0, una naturale evoluzione della robotica che, avvalendosi dell’Intelligenza Artificiale e della crescente interconnessione tra macchine e oggetti tramite l’Internet delle cose, genera processi di auto-apprendimento (machine to machine) in simbiosi con l’uomo, con potenti effetti di accresciuta produttività del lavoro.
Un primo punto concerne gli strumenti previsti per favorire il trasferimento dalla ricerca scientifica all’innovazione industriale. Gli strumenti previsti da Impresa 4.0 – una rete territoriale di Digital Innovation Hubs (DIH) appoggiata presso le rappresentanze territoriali di Confindustria e una rete nazionale di “centri di competenza ad alta specializzazione” identificati a bando di gara fra tutte le Università e i centri non accademici di ricerca – incontrano il classico rischio delle nozze con fichi secchi, perché il consueto apparato di regole formali (es. occorrevano più di 100 parole per definire cos’è lo “sviluppo sperimentale”?) si accompagna ad una cronica scarsità di mezzi finanziari. A differenza dalla pur citata società tedesca Fraunhofer, i DIH privi di risorse proprie si profilano come sportelli informativi di primo contatto delle PMI del territorio con qualcuno dei centri di competenza, più che come nuclei di personale qualificato appositamente formati al difficile compito di scovare i soggetti interessati mediando tra il linguaggio scientifico dei centri di ricerca e il linguaggio tecnico delle PMI focalizzate sulla propria nicchia di prodotto. Sarà una scommessa se tale capitale umano qualificato verrà invece fornito dai centri di competenza, questi sì dotati di mezzi per costituire e avviare l’attività (7,5 milioni: art. 6 del decreto uscito in GU del 9 gennaio) e co-finanziare fino a 200.000 euro singoli progetti. Nei casi migliori sono peraltro le stesse imprese ad aver già identificato le università, i Politecnici e i centri di ricerca più prossimi alle proprie specifiche esigenze di sviluppo dei prodotti e dei processi.
Il secondo punto, su cui ho più volte richiamato l’attenzione, è l’assenza di un disegno di grandi programmi di ricerca pre-competitiva (open innovation nel linguaggio internazionale largamente in uso) con cui imprese grandi-medie-piccole e centri di ricerca accettano di mettersi attorno a un tavolo, coordinati da soggetti autorevolmente riconosciuti tratti dal settore privato (senza il bisogno di bandi ministeriali!), per condividere percorsi di esplorazione innovativa. Il governo non dovrebbe avere ritegno – come ormai avviene nei paesi europei a noi vicini – nel coinvolgere il settore privato in pochi grandi programmi di ricerca pre-competitiva. Segnalo che il recente rapporto europeo indipendente dello High Level Group, presieduto da Pascal Lamy, mette come sua quinta raccomandazione “Adopt a mission-oriented, impact-focused approach to address global challenges”. Programmi che nulla hanno a che fare con nostre e altrui passate esperienze fallimentari di programmazione di settori merceologici, mentre prendono quasi ovunque gli stessi nomi: efficienza energetica, mobilità eco-sostenibile, manifattura additiva e fabbrica del futuro, città del futuro, medicina preventiva e bio-medicina, sicurezza alimentare, conquista dello spazio e altro ancora. Tutti temi a cui concorrono le tecnologie-chiave abilitanti in molte delle quali l’Italia è tutt’altro che assente: sensoristica, banda larga e ultralarga, nuovi materiali polimerici e ceramici, fotonica, microelettronica, bio-nano tecnologie. Così si potenzia veramente l’interconnessione (altro termine divenuto popolare nell’economia dello sviluppo) tra imprese e istituzioni di ricerca, promuovendo economie di scala da condivisione di informazioni e copertura dei costi, dalla ricerca di base allo scambio di best practices, alla sperimentazione prototipale, ai test preliminari di processo e di prodotto.
fabrizio.onida@unibocconi.it