Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2017
Finalmente dalla Commissione UE sembra emergere un’apertura all’invito di Padoan e altri tre ministri finanziari dell’Eurozona (Francia, Spagna, Portogallo) a riflettere criticamente sulla “fallacia del metodo di calcolo del deficit strutturale” che in base al Fiscal Compact dovrebbe misurare quanto il singolo paese rispetta o non rispetta la disciplina promessa (lettera del 4 maggio al vicepresidente Dombrovski e al commissario Moscovici). Infatti il semplice parametro del deficit strutturale rischia di portare a politiche che, in nome della disciplina fiscale, agiscono da freno anzi che da accompagnamento alla ancora incerta ripresa economica dell’area. L’Invito è ripreso nella recente lettera di Padoan agli stessi destinatari UE a proposito dell’impegno italiano per la prossima Legge di stabilità.
Ricordiamo i termini del problema: a seguito dei regolamenti “Six-Pack” e “Two-Pack” l’originario vincolo di Maastricht del 3 per cento di deficit pubblico “nominale” sul Pil diventa l’obiettivo di un “deficit strutturale” intorno allo 0,5 per cento del Pil. Il “deficit strutturale” rilevante è inferiore al deficit nominale se il paese ha subìto eventi naturali sfavorevoli e soprattutto se si trova in condizioni cicliche lontane dal proprio livello di piena occupazione (“Pil potenziale”), perchè in entrambi i casi il deficit nominale è aggravato da aumenti temporanei della spesa sociale e perdite di gettito fiscale. La distanza del Pil effettivo dal Pil potenziale misura il cosiddetto “output gap”: maggiore è tale distanza, maggiore è la correzione al ribasso del deficit di bilancio pubblico nominale per calcolare il teorico “deficit strutturale”, quindi maggiore diventa lo spazio ammissibile per una politica fiscale espansiva mirata a riportare l’economia verso la piena occupazione. Quando la Commissione valuta, paese per paese, la coerenza tra la legge annuale di stabilità e gli impegni di aggiustamento fiscale assunti dai singoli governi, ciò che conta non è solo il deficit nominale (che pure fa crescere il livello assoluto del debito pubblico e quasi automaticamente anche il suo rapporto col Pil nominale), ma appunto l’entità e l’andamento tendenziale del “deficit strutturale”. I problemi nascono proprio dal calcolo dell’output gap, cioè dalle ipotesi che nel modello econometrico adottato vengono fatte sul livello del Pil potenziale a date condizioni cicliche e accidentali dell’economia. La Nota di lavoro dell’Upb pubblicata ieri richiama l’opportunità di disporre di diverse stime econometriche come guida alle ricette di politica economica. Andrea Boitani su Repubblica Affari e Finanza del 22 maggio opportunamente ricordava che “gli investimenti non fatti portano a una riduzione della produttività. I disoccupati di lungo periodo diventano “inoccupabili”.Tutto ciò porta a una riduzione del Pil potenziale , in molti casi, alla riduzione del potenziale di crescita (…) moltissimi lavori empirici hanno dimostrato che, effettivamente, il Pil potenziale tende a seguire il Pil effettivo (…) Decidere la politica di bilancio in base a questa misura sbagliata può causare veri e propri disastri, soprattutto nei paesi in cui la crisi è stata più lunga severa e dove quindi il Pil potenziale si è ridotto di più”.
Un breve riquadro dell’ultimo Bollettino della Banca d’Italia (n. 3/2017 pp. 21-22) offre in qualche modo un assist a Padoan e colleghi, ricordando che la forte contrazione degli investimenti durante la prolungata recessione si è “tradotta non solo in una riduzione della capacità produttiva installata, ma anche in un deciso peggioramento del suo grado di aggiornamento tecnologico, a causa del rallentamento del processo di sostituzione dei vecchi beni strumentali con quelli più recenti e tecnologicamente più avanzati”. Da ciò consegue che i forti incentivi di Industria 4.0 all’acquisizione di beni strumentali tecnologicamente avanzati potrebbero comportare “un miglioramento della crescita potenziale dell’economia italiana nel prossimo futuro”.
Si dirà: ma tenere conto di aumenti di produttività futuri e incerti sarebbe assai azzardato, il ricalcolo del Pil potenziale e del relativo output gap aprirebbe margini di arbitrarietà e possibile confusione. Vero, ma forse più grave è inchiodare la politica fiscale al rispetto di pareggi contabili basati su un Pil potenziale di incerto calcolo e mortificato dalla più grave recessione del dopoguerra. Forse gli occhiuti vigilanti europei sulla disciplina fiscale dei paesi membri cominciano ad ammettere che la politica economica è virtuosa se, mentre cura l’efficienza dei mercati, ne governa la capacità di crescita, di innovazione e di valorizzazione delle risorse umane. Flessibilità può essere sinonimo di realismo, non di comodo lassismo nella politica di bilancio. Per abbattere significativamente lo stock del debito pubblico, ereditato da lontano ma aggravato dalla lunga e pesante recessione, serviranno misure di finanza straordinaria (vendita di patrimonio pubblico, tassazioni patrimoniali) su cui è sempre più urgente un confronto politico e tecnico aperto e senza pregiudizi ideologici.
fabrizio.onida@unibocconi.it