Introduzione: perché questo libro
Ancora agli inizi degli anni 2000 Romano Prodi, presidente della Commissione Europea, ebbe a dire che in Europa la parola “politica industriale” era dai più considerata “parola oscena”. Da allora molte sensibilità sono cambiate e si sono moltiplicati documenti della Commissione e del Parlamento sul “Rinascimento europeo” e sulle politiche di innovazione per la competitività delle imprese e dei territori regionali. Mentre andavano verso il tramonto i grandi programmi comunitari di ricerca pre-competitiva come Esprit, Race. Eureka, diversi governi nazionali europei, a cominciare dalla Germania, hanno cominciato a mobilitare il settore privato con proposte variamente configurate di partnership Stato-imprese su una gamma molto ampia di progetti di innovazione industriale. Nulla a che vedere con programmi di sviluppo di particolari settori merceologici, tanto meno con piani di salvataggio di imprese in crisi. Piuttosto programmi di lungo respiro mirati ad accelerare la diffusione intersettoriale delle “tecnologie-chiave abilitanti” (manifattura digitale, internet delle cose, cloud computing, big data, nuovi materiali, biotecnologie ecc.) per migliorare la risposta ai grandi bisogni pubblici (fonti alternative di energia, salvaguardia ambientale, mobilità sostenibile delle persone e delle cose, città e reti intelligenti, nuove medicine e trattamento della salute e così via). Programmi ispirati ai grandi “driver di sviluppo” delle società avanzate. Programmi e specifiche istituzioni pubbliche mirate a rendere più efficaci i canali di trasmissione delle conoscenze e delle competenze tra i laboratori pubblici e privati di ricerca scientifica (accademica e non accademica) e il tessuto delle imprese manifatturiere e di servizi, dalle grandi alle piccole dimensioni.
A fronte del fiorire di questi programmi di diffusione tecnologica nei paesi europei nostri vicini di casa, governo e parti sociali in Italia dovrebbero porsi seriamente l’obiettivo di rilanciare su basi credibili una politica industriale che tragga insegnamento dai numerosi fallimenti del passato: dalla ormai lontana degenerazione delle Partecipazioni Statali catturate dall’ingerenza dei partiti e della burocrazia ai più recenti tentativi maldestri di sostegno pubblico a implausibili “campioni nazionali”, alla gestione sprovveduta di “Industria 2015” dopo il suo coraggioso lancio iniziale.
L’attuale fase di implementazione di “Industria 4.0”, tenacemente disegnata dal ministro Carlo Calenda, rappresenta per certo un coraggioso passo avanti rispetto a quelle esperienze passate, in particolare nell’uso dello strumento delle agevolazioni fiscali automatiche in sostituzione di inefficienti bandi ministeriali, ma resta una politica ancora inadeguata rispetto all’obiettivo di mobilitare risorse pubbliche e private lungo quei “driver di sviluppo”. “Industria 4.0” mira a creare decine di Digital Innovation Hubs sul territorio (con il coinvolgimento delle rappresentanze confindustriali), capaci di indirizzare le imprese a un piccolo numero di altamente qualificati Competence Centres (universitari e non) per innovare il proprio portafoglio prodotti e servizi. Il progetto può certamente mobilitare orizzontalmente energie innovative delle imprese di minore dimensione, anche se non è chiaro in quale misura il complesso sistema degli Hubs e dei Centres riuscirà in pratica a raggiungere l’obiettivo di promuovere il trasferimento scienza-innovazione industriale, il che richiede personale in grado di capire il linguaggio dei docenti e ricercatori, ma al tempo stesso di parlare il linguaggio delle imprese (soprattutto selle piccole e medie). Ma soprattutto il progetto lascia i protagonisti (imprese e centri di ricerca) totalmente privi di indicazioni su come aggregare tante energie individuali disperse per formare massa critica intorno a pochi progetti condivisi a medio-lungo respiro, favorendo quell’interconnessione tra imprese che stimola la produttività (Ocse), e sottoponendo l’erogazione dell’incentivo finanziario pubblico a rigorose verifiche di risultato dei progetti medesimi. Invece la visione più moderna della politica industriale (Rodrik, Aghion e altri) sottolinea proprio l’importanza di strumenti e iniziative pubbliche che promuovano le “economie esterne” (spillovers) di informazione e interconnessione entro diversi “ecosistemi innovativi” localizzati sui territori ma con reti lunghe di interconnessione che superano i limiti territoriali degli antichi tradizionali “distretti industriali”. Nella storia del dopoguerra, ma anche in precedenza, l’Italia si è segnalata per la straordinaria capacità di alimentare quei distretti industriali (che ancora oggi ci invidiano altri paesi con tessuto produttivo assai più concentrato del nostro). Oggi dovremmo essere maturi per produrre una nuova cultura di “ecosistemi innovativi” all’altezza delle sfide competitive del nostro secolo, avendo intorno a noi paesi vecchi e nuovi protagonisti della concorrenza sui mercati, proiettati sul futuro dei propri vantaggi comparati, più che sulla strenua difesa di quelli ereditati dalla storia. Stiamo assistendo ad alcune nuove promettenti esperienze di aggregazione innovativa, come lo Human Technopole di Milano connesso all’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, ma la classe politica e sindacale sembra ancora tiepida, se non scettica, e i mezzi finanziari pensati per questi sviluppi sembrano raccogliere modesti scampoli di spesa pubblica più che disegnare consistenti percorsi di sviluppo. Mi auguro che le riflessioni di questo libro accendano dei segnali di interesse e in qualche modo, come si dice, stimolino le coscienze a interrogarsi su quale paese vogliamo lasciare ai nostri figli e nipoti.